Middle East Monitor, 16 gennaio 2016 (trad. ossin)
 
Un crimine contro l’umanità di cui nessuno sembra preoccuparsi 
L’adolescenza negata dei minori palestinesi nelle prigioni israeliane
Samah Jabr (*)
 
 
Il Parlamento israeliano ha recentemente varato una legge che punisce con pene fino a venti anni di prigione i Palestinesi che lanciano pietre, generalmente dei minori. E’ stata poi approvata anche un’altra legge, che consente l’arresto di bambini palestinesi che abbiano compiuto i 12 anni, se riconosciuti colpevoli di violenze con “motivazioni nazionalistiche”.
 
 
Come medico, mi capita spesso di incontrare adolescenti il cui sviluppo sociale e psicologico è rimasto sospeso a causa di esperienze di detenzione per motivi politici. Rilevo che molti di essi presentano manifestazioni di angoscia e depressione a causa di tale esperienza, mentre altri reagiscono in maniera stoica e non riescono più ad esprimere la minima emozione.
 
“Majed” (uso un nome di fantasia) è un ragazzo di 14 anni; è stato arrestato 14 volte e spesso selvaggiamente picchiato durante la detenzione. In una occasione, le forze israeliane gli hanno rotto i denti e inflitto diverse ferite alla testa. Majed è giunto alla mia clinica, accompagnato da una sorella maggiore che aveva appena terminato gli studi di medicina. Ella mi ha spiegato che il bambino non ascoltava più nessuno a casa, non rispettava più i suoi professori, e spesso non andava a scuola. Preferiva frequentare uomini di 30 o 40 anni, con i quali passava ore nei caffè. Io ho rilevato che Majed era un adolescente che viveva una esaltazione ipertrofica del suo io, ritenendosi un eroe, col rischio di compromettere altri aspetti dello sviluppo della sua personalità. Questo profilo di ex detenuto è tipico. Meno frequenti sono reazioni come quelle di Mufeed, in cui l’esperienza della detenzione ha provocato danni più profondi, almeno nell’immagine che ha del padre. Mufeed mi ha detto: “Il guardiano della prigione era meglio di mio padre: mi ha dato delle sigarette da fumare”.
 
Majed e Mufeed sono solo due dei 700 bambini palestinesi che ogni anno vengono arrestati. L’età media degli arrestati è di 15 anni e la durata media della detenzione è di 147 giorni. Si ritiene che il 90% di essi sia stato esposto ad esperienze traumatizzanti, e il 65% di essi abbia sviluppato turbe psichiatriche. Per questi minori e adolescenti, l’esperienza dell’arresto si combina ad una infanzia già resa difficile dall’occupazione israeliana, sotto la quale i servizi sociali e i sistemi di sostegno all’educazione sono carenti, l’alimentazione e le cure mediche insufficienti e la violenza politica endemica.
 
Brutale arresto di un adolescente palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane
 
Dovunque l’età dell’adolescenza è quella in cui ci si muove verso l’indipendenza sociale e la formazione di una propria identità, ricerca che si accompagna ad una vulnerabilità emotiva e comportamenti impulsivi. Tuttavia il contesto dell’occupazione aggrava i rischi e le conseguenze per gli adolescenti palestinesi. Alcuni ragazzi ritengono che i rischi che derivano dalla partecipazione ad atti di resistenza siano più stimolanti di una sottomissione passiva all’oppressione. Essi si identificano e si immedesimano nella sofferenza della comunità e cercano di ritagliare per se stessi un ruolo particolare, agendo a suo nome. Mentre un po’ dovunque, in altri luoghi, gli adolescenti prendono a modello le star dei media, alcuni adolescenti palestinesi esaltano i combattenti per la libertà, come il personaggio di Muhannad Elhalaby, che ha saputo vincere il proprio sentimento di impotenza, impadronendosi dell’arma di un colono israeliano e uccidendo due coloni durante gli attacchi contro la moschea.
 
La realtà della detenzione è una storia di orrore, impotenza e umiliazione per i minori. E’ consuetudine che decine di soldati armati irrompano coi cani nella casa familiare in piena notte, interrompano il sonno di tutto il quartiere e diano dimostrazione, con atti di aggressione smisurata, che la resistenza non ha senso. Il padre del ragazzo viene pressato con minacce, perché consegni suo figlio ai soldati, e spesso finisce col farlo, nonostante le suppliche della madre e di fratelli e sorelle in lacrime. Strappato in questo modo al caldo del suo letto, il ragazzo viene esposto a sgomento gratuito ed a violenza fisica, mentre lo conducono verso una destinazione sconosciuta, spesso per ragioni anch’esse sconosciute. D’abitudine, viene crudelmente ammanettato e bendato, impossibilitato per tutto il tempo a comunicare o a capire quello che gli gridano addosso in lingua ebraica. Mentre lo immobilizzano per renderlo inoffensivo, viene schiaffeggiato, pestato con calci e pugni, strattonato. Poi, senza la presenza di un avvocato o di un familiare, viene interrogato per un tempo che può variare da qualche ora a qualche settimana, impedito di soddisfare i bisogni fisiologici come mangiare, bere, andare al bagno e dormire. Viene esposto a un caldo o un freddo eccessivo, costretto all’orrore di assistere alla tortura di altre persone, e denudato prima di essere sottoposto a sua volta ad analoghe procedure.
 
Chi lo interroga suscita in lui sensi di colpa, lanciando minacce contro i membri della famiglia: “Adesso andiamo a prendere tua madre e le tue sorelle” e “Ora ti demoliamo la casa”. Lasciando che l’orrore si faccia strada nell’immaginazione del bambino, accade che chi interroga giochi con dei guanti di gomma, dicendo al bambino: “Se non mi dici i nomi dei tuoi amici che lanciano le pietre, può capitarti qualcosa di veramente brutto”. Spesso minaccia: “Ti metto nella cella numero quattro, dove si entra con le proprie gambe e si esce a quattro zampe”. I giovani detenuti sentono spesso dire da chi li interroga che hanno già ricevuto informazioni su di loro dagli amici o dai vicini, e molti cedono di fronte a simili menzogne; finiscono per firmare dei documenti scritti in ebraico, che sono incapaci di leggere. Molti di questi bambini e adolescenti ricordano poi questi momenti con un senso insopportabile di vergogna. I giovani vengono poi relegati all’isolamento e all’incertezza, all’interno di un ambiente penitenziario ostile, dove il passare del tempo e la vita restano congelati. In tali condizioni, vengono distrutti i loro affetti umani, dal momento che sono pochissime le famiglie che riescono ad ottenere il permesso di fare visita ai loro bambini.
 
Arresto a Gerusalemme del bambino Fayez Buroan
 
Nel marzo 2013, in un periodo di relativa calma politica, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF) descriveva i maltrattamenti sui minori palestinesi detenuti nei centri di detenzione militare israeliane come “generalizzati, sistematici e istituzionalizzati”. L’UNICEF ha studiato il sistema giudiziario militare israeliano e vi ha trovato prove di “trattamenti o punizioni crudeli, inumani e degradanti”. Vi sono rapporti su alcuni casi in cui sono stati usati i cani per aggredire dei bambini; o di violenze sessuali su bambini e adolescenti; o di giovani che sono stati costretti a compiere o assistere ad atti che denigrano i loro simboli religiosi.
 
Le procedure di arresto dei minori colpiscono il futuro della nazione palestinese. E’ un’aggressione contro il corpo, la personalità, il sistema di valori, le speranze e i sogni dei giovani Palestinesi, che rende le loro famiglie disfunzionali e rompe i legami relazionali con la comunità.
 
Molti di questi bambini escono di prigione con problemi di apprendimento e incapacità di applicarsi. I genitori e i professori perdono ai loro occhi qualunque autorità. La fiducia nei confronti di amici e vicini è spezzata. Né la comunità può fidarsi più di loro, giacché sarà stato detto che altri bambini sono stati arrestati perché da loro chiamati in causa davanti al loro torturatore. Essi vivono nel timore costante e realista di un altro arresto. E per gli altri membri della famiglia, l’arresto del minore è spesso estremamente traumatizzante; si sentono colpevoli per non essere stati capaci di proteggerlo e ritengono quindi di non essere in grado di guidarlo nel passaggio dall’infanzia all’età adulta.
 
Con problemi di immaturità, lasciati senza educazione e privati del consiglio delle famiglie, molti adolescenti non riescono a sviluppare una identità complessa da adulto maturo. L’ex detenuto si aggrappa alla sua identità di prigioniero, impantanato in un limbo perpetuo, incapace di tornare all’innocenza dell’infanzia o di entrare nell’età adulta.
 
Un sentimento di impotenza prende spesso i medici che hanno in cura questi giovani. Gli effetti psicologici dell’arresto di un minore non rientrano negli schemi diagnostici abituali, patologia e cure. Questi giovani hanno bisogno che noi ci comportiamo come testimoni, che siamo con loro solidali e che li accompagniamo, loro e le loro famiglie, nell’esplorazione del significato della loro esperienza. Il nostro compito è di aiutarli a integrare questo significato nella loro vita presente e nei loro progetti per il futuro.
 
Ippocrate disse ai medici, 25 secoli fa, che spesso non siamo in grado di guarire, che talvolta non siamo in grado di curare; ma che siamo sempre in grado di procurare un conforto. Noi medici non possiamo liberare questi bambini dalle prigioni israeliane, ma possiamo riuscire a liberarli dalle loro prigioni interiori quando rientrano nella comunità
 
(*) Samah Jabr è una psichiatra e psicoterapeuta di Gerusalemme, che ha a cuore il benessere della sua comunità, ben al di là degli aspetti puramente medici.
 
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