Stampa






Il Manifesto, luglio 2010

POLVEROSA Niamey
di Abdourahman A. Waberi

Quattro anni fa, nel 2006, l'autore del provocatorio romanzo «Gli Stati Uniti d'Africa» è stato invitato in Niger per un ciclo di incontri culturali. Nella quarta puntata della serie dedicata a tredici città del mondo, presentiamo oggi il reportage inedito di quella esperienza in uno dei paesi più poveri e meno conosciuti del pianeta, segnato tra l'altro da cicliche siccità e dal perdurare non troppo sotterraneo di varie forme di schiavitù
Era tanto che volevo andare in Niger, senza sapere neanche bene perché. Qualcuno di certo vi avrà già detto che è il paese più povero del mondo, ma i record deprimenti non si fermano qui: il più alto tasso di fecondità nel pianeta, la più grande superficie dell'Africa occidentale (due volte la Francia) per circa dodici milioni di abitanti e 789 chilometri in tutto di strade asfaltate. Stretto tra Sahel e Sahara, privo di una vera e propria diaspora all'estero, il Niger è chiuso, desertico e ben poco turistico. Se la cultura - il suo studio e la sua diffusione all'interno e all'estero - è un indicatore di sviluppo, quella di questo paese è minima, secondo tutti i criteri internazionali. Percorrete i dintorni della capitale e proverete presto, superato il fascino del fiume Niger, una sensazione inquietante di vuoto, di assenza di uomini (e soprattutto di donne), di monumenti, di tracce del passato e di uno stato postcoloniale ridotto a brandelli.
Sbarco all'aeroporto Hamani Diori, dal nome del primo presidente della repubblica del Niger, a Niamey. Non è tardi, ma c'è una gran calma davanti all'aeroporto, là dove in altre città, da Nairobi a Cotonou, dei giovani spavaldi e spacconi si propongono come facchini, cambiavalute o conducenti di taxi. Le strade sono deserte e silenziose sotto il velo di polvere che le ricopre. I fanali crepitano, ammaliando con la loro luce grilli e farfalle. Arrivando da Bamako, Niamey mi fa l'effetto di una capitale modesta, percorsa da asini stremati e da taxi vetusti. «È un paesone il cui capo è andato a fare una scampagnata», mi aveva avvertito la mia vicina sull'aereo di Air Sénégal International, di propriétà della Royal Air Maroc, che collega Dakar a Niamey due volte la settimana.

Uno scrittore per sentito dire
Sono stato invitato dal Centre culturel franco-nigérien, il «Franco» come lo chiamano i giovani di Niamey, nell'ambito dell'iniziativa francese «Lire en fête». Il Ccfn è la sola organizzazione culturale internazionale insieme al suo concorrente americano, apparentemente più sommesso, situato nello stesso quartiere. Ovunque nel mondo francofono dove la scena culturale è sostenuta e sorvegliata da Parigi, il 2006 è consacrato al centenario della nascita di Léopold Sédar Senghor, il presidente e poeta del Senegal, e per di più accademico di Francia. Nel Niger, a questo anniversario si aggiunge quello di Boubou Hama (1906-1982), primo maestro, deputato del Niger coloniale, presidente dell'Assemblea nazionale dal '60 al '74, scrittore, storico e, last but not least, autore della Nigérienne, l'inno nazionale. La sua opera attraversa tutti i generi e conta più di cinquanta titoli. Eppure questo eroe nazionale è del tutto ignoto all'estero. Peggio, il suo nome è caduto nel dimenticatoio anche nel suo paese. I suoi libri non ci sono, e del resto non esiste una sola libreria nei 1267000 km2 che conta il Niger, a parte i banchetti nei mercati, dove i libri sono disposti per terra tra sacchi di miglio e cianfrusaglie, e dove si trovano testi che sono scritti in haussa, la lingua principale del paese, ma vengono in realtà dalla Nigeria.
«Se le parole di un morto restano in piedi, è grazie a chi sopravvive» profetizzava lo stesso Boubou Hama ma tutto dipende dai mezzi di chi sopravvive. E anche dalla sua volontà, dai suoi desideri e dai suoi pregiudizi. Il 28 novembre 2006 è stato scelto come giornata di commemorazione di Hama in tutte le scuole del paese. Questa decisione, tutto sommato modesta e tardiva, non è stata presa con facilità per ragioni che rischiano di sfuggire all'ospite di passaggio. Poco letto dalle giovani generazioni, Hama resta un'entità vaga, uno scrittore per sentito dire.
«Poco tempo fa ho mostrato ai miei allievi una sua fotografia, spiegando che è l'autore del nostro inno nazionale e raccontando quello che ha narrato nei suoi libri: la vita al villaggio, la scuola dei suoi tempi, la storia degli zarma-songhai, del Gobir, dei tuareg, dei peul... », osserva Djibrilla Abdoulaye, insegnante alla scuola elementare Terminus I. Interpellato da un giornalista del «Républicain», il maestro spiega che per lui «si tratta solo di rendere giustizia a quest'uomo che ha segnato in modo indelebile la storia politica e culturale del paese» e che gli dispiace che in Niger non ci siano strade e monumenti alla memoria di Boubou Hama.

Quando il silenzio è complice
In effetti, c'è un dato essenziale per capire la società del Niger, un dato che è stato a lungo un tabù prima che i militanti dei diritti dell'uomo non lo inserissero nella loro agenda verso la metà degli anni '90. E questo dato altro non è che l'assoluta asimmetria dello statuto dell'essere umano: detto altrimenti, la persistenza nel paese di pratiche che rasentano la schiavitù. La schiavitù era una pratica radicata, per quanto in misura diversa, presso tutti i popoli della regione nell'economia pastorale degli arabi, dei peul, dei tubu e dei tuareg, come nelle aree agricole haussa e zarma. In ogni tempo le autorità - vale a dire le chefferies tradizionali come poi lo stato coloniale e postcoloniale - ne hanno tratto vantaggio, accettandola di fatto o chiudendo gli occhi per non vederla. Oggi la schiavitù esiste sempre, anche se non ha più l'importanza di un tempo. Più di un secolo dopo la sua abolizione formale con la colonizzazione, la schiavitù resiste alle esigenze morali e economiche del mondo moderno, agli atti giuridici e politici.
Un'inchiesta condotta nel 2003 da Timidria, un'organizzazione antischiavista che ha sede a Niamey, ha raccolto dati incontestabili sulla questione. Timidria («solidarietà» in tamasheq), animata da giuristi simpatizzanti della causa antischiavista o discendenti di schiavi, si batte da anni contro «il silenzio complice delle autorità politiche, amministrative e tradizionali».

Bombe emotive e mediatiche
Con l'appoggio dell'organizzazione londinese Anti-Slavery International e dei media esteri, Timidria smaschera le rappresentazioni e gli stereotipi che vengono dal passato come le attualissime discriminazioni. Il silenzio che circonda l'eredità culturale di Boubou Hama deriva dunque in gran parte dalla sua origine «servile». Uno studioso che si era recato nel suo villaggio natale per raccogliere dati per una ricerca è stato attaccato dagli abitanti del posto e mandato a quel paese: «Boubou Hama non è nessuno qui, vada a cercare altrove». È stato lui stesso a raccontarmelo proprio il 28 novembre, dopo il convegno all'università Abdou Moumouni.
La mentalità del cittadino medio del Niger è condizionata dalle antiche discriminazioni basate sull'ascendenza. In occasione dei matrimoni o delle campagne elettorali, voci malevole, fondate o no, circolano sull'origine di questo o quel pretendente. Accade che matrimoni vengano annullati in extremis e carriere politiche siano distrutte perché il fatto di avere schiavi tra i propri antenati è considerato un ostacolo insormontabile. Nel 2003 migliaia di schiavi sono stati liberati in diverse regioni del paese sotto l'obiettivo delle telecamere nazionali e internazionali. L'anno dopo Ilguilas Weila, presidente di Timidria, ha ricevuto il premio Anti-Slavery Award che nel 1998 era stato assegnato allo studioso mauritano Cheikh Saad Bouh Kamara per il suo ruolo nella lotta contro la schiavitù nel suo paese. Niger, Mauritania e Sudan sono infatti i tre paesi africani dove questa pratica resiste ancor oggi. Sulla scia di questo interesse da parte dei media, un regista francese ha prodotto un documentario, Maîtres et esclaves, andato in onda sul canale franco-tedesco Arte. Nel 2005 il figlio di un capo tradizionale schiavista, Moustapha Kadi Oumani, ha messo nero su bianco la sua testimonianza (Un tabou brisé, l'esclavage en Afrique, cas du Niger, L'Harmattan) con la prefazione dello storico Djibo Hamani.
L'uscita del libro ha dato il la a nuove dispute in Niger. Alcuni, come Mamadou Tanja (presidente del Niger fino al febbraio 2010, quando è stato deposto da un colpo di stato militare, ndr), hanno negato il fenomeno, altri ne hanno minimizzato la portata. Altri ancora hanno cinicamente fatto le anime belle: «In effetti abbiamo ereditato degli schiavi dalle nostre famiglie, ma non diremmo mai che si tratta di schiavitù: queste sono vittime che non ci vogliono lasciare, e voi non immaginate quanta fatica tocca a un padrone, che deve occuparsi dei suoi schiavi come dei suoi stessi figli...». Simili argomentazioni abbondano nella stampa locale, ed è inutile precisare che le diverse posizioni non sono esenti da finalità politiche più o meno nascoste. Questo «problema molto sensibile», per citare l'eufemismo di un giornalista, può diventare una bomba emotiva e mediatica: al giorno d'oggi, mentre sullo scenario mondiale impera la retorica del buon governo, i politici del Niger hanno capito tutto il tremendo potere che possono esercitare su questo terreno per gettare discredito o eliminare un avversario.

Università al rallentatore
Restia a una colonizzazione che fu all'inizio particolarmente sanguinaria (la tristemente nota colonna Voulet-Chanoine è ricordata tuttora), la patria di Boubou Hama è stata la più pronta, in Africa occidentale, a dotarsi di una cinematografia con professionisti di talento come Oumarou Ganda (il protagonista di Moi, un Noir di Jean Rouch, girato nel 1959) e Moustapha Alhassan. Se c'è un uomo che ha contato, fin dagli anni '40, per il cinema africano in generale e del Niger in particolare, quello è stato Jean Rouch. Ironia della sorte, il padre del cinema etnografico è morto il 18 febbraio 2004 sulla strada rosso laterite di Konni. Aveva ottantasei anni ed era in compagnia di vecchi amici. L'inventore del cinéma-vérité, adulato da generazioni di reporter e cineasti, da Chris Marker a Raymond Depardon passando per Souleymane Cissé e Rahmatou Keïta, aveva girato un centinaio di film, per lo più cortometraggi. L'opera di questo pioniere che ha percorso su e giù il continente con la macchina da presa in spalla non piaceva a tutti. In molti ricordano come il senegalese Sembène Ousmane lo abbia rimproverato gettandogli in faccia un magnifico e definitivo: «Tu ci filmi come fossimo insetti!». Tutto questo è lontano. Il Niger di Jean Rouch e di Oumarou Ganda non esiste più. Il Burkina Faso ha preso il testimone del cinema africano subsahariano. La forma di un paese cambia più rapidamente, ahimé, del cuore di un morto!
L'indomani vado all'università Abdou Moumouni per tenere una conferenza. È questo l'unico ateneo del paese (a cui fanno capo ora anche i tre Iut, Instituts Universitaires de Technologie, di Tahoua, Maradi e Zinder, ndr). Eccomi davanti a una serie di piccole costruzioni color ocra sparpagliate nella brousse. Ci si sente persi quasi come nel deserto dell''Aïr, in questa capitale dove interi quartieri sono invasi dalla savana. Anche qui la vita procede al rallentatore. Manca quella vivacità, quel fermento, che rappresentano il fascino della gioventù. La città universitaria è un edificio cadente circondato da arbusti spinosi. Biancheria e utensili di plastica o di alluminio sono appesi alle finestre. Gli studenti sono stipati in aule piccole e soffocanti. Ciclicamente reclamano migliori condizioni e il pagamento delle borse di studio. Gli scioperi si succedono agli scioperi. La città universitaria ospita, così si sussurra presso le alte sfere, delinquenti che si fanno passare per studenti. La polizia effettua incursioni durante tutto l'arco dell'anno accademico. Blocchi della didattica e abbandoni sono moneta corrente. Gli studenti più svegli hanno l'orecchio incollato alla radio per sentire cosa succede fuori. Spesso si assentano, realizzano progetti per le organizzazioni internazionali e le ong che pullulano nella regione o soccombono alle tentazioni del mondo politico. I più brillanti cominciano la trafila degli stage all'estero. Alcuni partono per non tornare più.
Ovunque si ripete che la cultura è un bisogno essenziale ma non si sottolinea abbastanza, nei paesi del sud del mondo, che essa si può rivelare una vera e propria industria, capace di generare profitti tutt'altro che trascurabili. In Mali, per esempio, la musica oggi rende quanto il cotone. Il dinamismo culturale di questo paese è stato favorito dai movimenti che hanno lottato per l'avvento della democrazia all'inizio degli anni '90.

La tradizione dei tuareg
Nulla di simile in Niger. Le personalità culturali che hanno una qualche eco fuori del paese si contano sulle dita di una mano. Alphadi, lo stilista che si muove tra Parigi, Niamey e Abidjan, creatore di linee di abbigliamento haute couture e fondatore del Fima (il Festival Internazionale della Moda Africana osteggiato dagli integristi musulmani locali) è indubbiamente il miglior ambasciatore della cultura del Niger. Bisognerebbe poi citare il poeta, pittore e calligrafo Hawad, che risiede a Aix-en-Provence da oltre due decenni e si è speso molto per creare una struttura culturale a Agadez. Invano. Questo bohémien anarchico, dalla parola sonora e mutevolissima, porta sulle sue spalle l'eredità poetica dei tuareg e soprattutto la scrittura tifinagh per la quale ha inventato una grafia e dei software. Ci sono poi alcuni giovani artisti come il drammaturgo Alfred Dogbé e il pittore Alichina. Ed è più o meno tutto.
Un anno fa una «crisi alimentare» - il vocabolo «fame» è stato bandito dalle autorità al termine di una lunga battaglia politica e giuridica - ha devastato il paese a causa della siccità, mettendo a rischio la vita di un quarto della popolazione. Appelli frenetici alla comunità internazionale. Ricomparsa sugli schermi di fantasmi che si credevano spariti, come le colonne di affamati coperti di stracci, o i bambini scheletrici con la pancia gonfia. Afflusso di aiuti e di giornalisti stranieri. Un eterno ritorno? «Oggi non esaurisce domani», scommetteva Boubou Hama. Eppure oggi è più esaurito di ieri.
(Traduzione di Maria Teresa Carbone)