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La lotta per la libertà


 

(L’Express 4/5/2006)

 

Migliaia di adulti e bambini continuano ad essere proprietà di una persona o di una famiglia. Coloro che, insieme alle ONG, lottano contro questo sfruttamento, diventato illegale, devono affrontare il peso dei costumi e dei tabù. Quando non é la minaccia delle Autorità…

 

Tutta fiera di sé, Assibit Wanagada riceve i suoi visitatori nella sua nuova casa: qualche archetto di legno bruciato dal sole, recuperato nei dintorni, ricoperto di paglia e scampoli di stoffa disparati: un sacco di prodotti alimentari, un pezzo di jean strappato, un quadrato di stoffa multicolore. Come unico mobile, al centro di questa struttura di pochi metri quadri, c’è una piattaforma di legno sopraelevata, sulla quale getta una stuoia quando vuole riposare. Allungata in un angolo all’ombra – ci sono 45 gradi – una capretta, unico bene della padrona di casa, prende il fresco.

E’ poca cosa, una capanna che dei bambini potrebbero abbattere, ma per Assibit è un palazzo. Appartiene a lei ed è la prima volta nella sua lunga vita che questa donna dal bel viso e con la pelle nerissima possiede qualche cosa. Da un anno infatti è diventata libera. Dalla nascita – circa sessanta anni fa secondo i suoi stessi calcoli – questa rappresentante della etnia hrheran in Niger, è stata schiava: apparteneva ad un padrone nel territorio di Tammahel, 900 chilometri a nord di Niamey, la capitale del paese. E’ nata schiava da genitori essi stessi schiavi. “Ho lavorato fin da quando ero piccolissima – racconta – mi occupavo della casa, portavo le bestie al pozzo, trasportavo le provviste. In tutta la mia vita, non ho mai dormito più di tre ore per notte”.

 

“Nelle zone nomadi, un Tuareg bianco è un padrone, un Tuareg nero è uno schiavo”

Mai aveva pensato di lasciare il suo padrone, che possedeva una decina di schiavi. “Non sapevo che fosse possibile – spiega – ma un giorno, accompagnandolo al villaggio di Tamaya, ha sentito parlare di Timidria, una associazione laica, ispirata ai principi di Martin Luther King, che aiuta gli schiavi a liberarsi. Una notte è fuggita insieme a due dei suoi figli. Ha camminato due giorni nella savana prima di trovare rifugio. “Qualche volta correvo. Avevo tanta paura che i padroni mi riacciuffassero”. Suo marito ed altri due figli non sono ancora liberi. Quando il rappresentante dell’associazione Timidria è andato a parlare coi Tuareg che la tenevano in schiavitù, per negoziare la sua liberazione, è stato minacciato con un coltello ed un fucile. Oggi Assibit vende, al mercato di Tamaya, acqua piovana e della farinata di miglio, nutrimento base degli abitanti di questa regione poverissima. “Qualche volta mangio, qualche volta no. Sono povera, ma preferirei morire piuttosto che ritornare dal mio padrone”.

Assibit era uno di quegli schiavi che, a centinaia di migliaia, esistono ancora nell’ Africa dell’ovest. Per secoli, soprattutto in Niger, i nomadi Tuareg – ma non erano i soli – hanno saccheggiato i villaggi della popolazione nera sedentaria, riducendo in schiavitù i prigionieri. I responsabili inglesi di Anti-Slavey International, la più antica ONG fondata (nel 1832) per lottare contro la tratta transatlantica, stimano che siano ancora 43000 in Niger. Nel 2002, Timidria, l’unica associazione nigerina di lotta contro la schiavitù, ha realizzato un ampio studio, il primo del genere: in otto regioni del paese, l’ONG ha inviato i suoi intervistatori nella savana, nei mercati, vicino ai punti d’acqua, negli accampamenti – di giorno come di notte, per non destare sospetti – a interrogare i membri di una famiglia o i suoi servi sul numero di schiavi presenti tra i vicini. Risultato: In Niger (che conta appena 10 milioni di abitanti) 800.000 persone sarebbero ancora proprietà piena ed intera di una persona o di una famiglia. “Nelle zone nomadi – racconta Ilguilas Weila, fondatore nel 1991 di Timidria (parola haoussa: “fratello”) – non vale nemmeno la pena di porre la questione: un Tuareg bianco è un padrone ed un Tuareg nero è uno schiavo. Tutto il lavoro spetta a lui: va a prendere l’acqua la mattina, prepara da mangiare per la famiglia, custodisce e abbevera gli animali, tira l’acqua da pozzi che hanno dagli 80 ai 150 metri di profondità, sposta le tende col girare del sole. Non si ferma mai.

Ciononostante, dal 2004, grazie alla campagna di Timidria, il Parlamento nigerino ha finito col mettere questa pratica fuori legge. Il regime del presidente Mamadou Tandja aveva ristabilito la democrazia nel 1999, dopo 25 anni di dittatura militare pressoché ininterrotta. Era diventato difficile non condannare la schiavitù, almeno in linea di principio. Oramai dunque ogni proprietario di schiavi rischia una pena da 10 a 30 anni di prigione ed una ammenda da 1 a 5 milioni di franchi CFA (da 1520 a 7600 euro). Fino a quel momento coloro che avevano lottato contro la schiavitù erano perseguitati. Primo militante della lotta contro la schiavitù, Ahmed Rissa è stato imprigionato 11 volte dal governo ed ha dovuto vivere in esilio per più di dieci anni. La gente del suo villaggio, Abalak, non osava più parlare con lui. “Fino ad allora, siccome la parola schiavitù non esisteva nella Costituzione, non era possibile combatterla – spiega Ilguilas Weila – oggi c’è una legge, ma la cosa si ferma qua”. Il governo non vuole soprattutto sentire parlare di schiavitù.

 

“In Niger lo schiavo è la proprietà assoluta di un padrone fino alla morte e lo serve giorno e notte”

Nel marzo 2005 un potente capo Tuareg, Arrisal Ag Amdagh, ha organizzato una grande cerimonia pubblica per rendere la libertà ai 7000 schiavi del suo accampamento di Inatès, vicino alla frontiera del Mali. All’ultimo momento il governo ha fatto annullare la cerimonia e Ilguilas Weila, come Alassane Biga, un altro militante di Timidria, sono stati imprigionati per due mesi. Le imputazioni non sono mai state archiviate, in modo da poter tenere i due uomini sotto ricatto. Capo di accusa: tentativo di truffa e falso. “Il governo sostiene che la lettera del capo Tuareg sia un falso che noi abbiamo fabbricato”, ironizza Weila. Questa reazione non è peraltro niente affatto sorprendente. Il governo è infatti formato da capi che possiedono loro stessi degli schiavi. Per esempio il presidente Seyni Kountché, alla testa dell’ex dittatura militare, veniva da una famiglia di capi. Il governo non incoraggia l’applicazione della legge, perché ritiene che parlare di questa pratica ancestrale nuoccia all’immagine del paese. Benché ne abbia favorito l’abolizione nel marzo 2003, Lompo Garba, presidente della Commissione nazionale dei diritti dell’uomo, ha minacciato: “Ogni tentativo di liberazione ufficiale di schiavi sarà considerato illegale e inaccettabile nel nostro paese. Chi dovesse farlo subirà i rigori della legge”. Insomma si ha il diritto, e anche il dovere, di affrancare i propri schiavi, ma con discrezione: non bisogna che si sappia. In due anni, secondo i dati forniti dalla ONG, solo 231 schiavi sono stati liberati.

Sono rari i Tuareg di sangue nobile che osano spezzare il tabù. Ahmadou Khamed Adulai è uno dei capi tuareg di Akoubounou, che conta circa 21.000 persone. “Qui non esiste la schiavitù, io non l’ho mai vista – afferma – tutto il Niger sa che la schiavitù è vietata. Ma se una persona che non possiede nulla si mette sotto la protezione di qualcuno e lavora senza remunerazione in cambio di vitto, questa non è schiavitù, è solo la povertà. Io ho qualcuno con me che non vuole remunerazione, perché io gli do da mangiare. E’ questo il tipo di schiavitù che resiste nel nostro paese”. Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo, con un reddito medio per abitante di meno di 2 dollari.

Mustapha Kadi, da parte sua, ha superato l’ostacolo. Nel 2003 questo capo tuareg del villaggio di Illéla ha convinto sua madre a liberare i loro 11 schiavi. “Mia sorella era violentemente contraria – ricorda – non dobbiamo liberare i nostri beni!” protestava. Mustapha Kadi, che presiede anche l’associazione dei capi tradizionali della regione di Tahoua, voleva dare l’esempio: “In occasione di questa liberazione – racconta – ho proposto di invitare tutti i capi e di organizzare una cerimonia ufficiale. Proprio prima che cominciasse, il governatore della regione ha chiesto alla polizia di cacciarci e sequestrare le pellicole delle foto scattate dai giornalisti. Quelli che resistevano erano minacciati di prigione. La vicenda è giunta fino a Niamey. Io sono stato convocato dal ministro dell’Interno con mio padre. Mi ha detto: in Niger la schiavitù non esiste. Non se ne vuole sentire parlare”.

 

“Il Corano vieta di prendere più di quattro mogli, ma se ne volete un’altra potete comprarla”

Il termine schiavitù designa qualche volta delle forme particolarmente inumane di lavoro, come quello dei bambini. In Niger la parola ha conservato il suo senso originale: lo schiavo è proprietà assoluta di un padrone fino alla sua morte e lo serve giorno e notte. E’ il padrone che gli sceglie un coniuge e, quando nascono dei bambini, essi sono proprietà della moglie del padrone. Questa ne fa solitamente dono ai suoi propri figli o li include nella dote della giovane sposa. In un paese dove, tradizionalmente, la proprietà è prerogativa dell’uomo, questa dipendenza da una donna segnala in maniera forte lo statuto inferiore dello schiavo. Lo schiavo non ha padre e dunque c’è l’umiliazione supplementare di essere un bastardo. Quando uno schiavo fugge il padrone può giungere ad ucciderlo oppure, come qualche volta è successo nella regione di Tchin Tabaraden, a castrarlo.
In Niger il commercio di schiavi è sparito dopo la colonizzazione francese, ma lo stato di schiavo si eredita: si tratta di discendenti di antenati rapiti durante una guerra tribale. “Esiste anche la schiavitù passiva – spiega Weila – ed è il caso di persone che sono appartenute ad un padrone e che, una volta affrancate, continuano a considerarsi come suoi schiavi. Vivono sulla terra del padrone e la coltivano. Al momento del raccolto il padrone prende quello che vuole, senza alcuna forma di compenso. Sono vittime delle stesse discriminazioni degli altri. Vivono spesso in quartieri di schiavi che si chiamano dabey. Kounti-Koira, un villaggio a 40 km da Niamey, a una popolazione di soli schiavi. Nell’ovest del paese ogni villaggio è diviso in due borghi: uno esclusivamente riservato agli schiavi e l’altro ai padroni.

A Tamaya, un Tuareg adesso libero cerca Ahmed Rissa, il grande militante antischiavista. Si chiama Abdelai Alhassen e vuole raccontargli cosa gli è successo. Coltiva patate dolci, cipolle, insalata, melanzane, tabacco da masticare, qualche melone. Racconta che una decina di giorni fa il capo tuareg Ha bruciato quattro giardini. “Questi sono schiavi, non ne hanno il diritto”, avrebbe sostenuto per giustificarsi. La terra che Abdelai coltiva è nera, bruciata. Lo statuto di schiavo è in effetti irreversibile, anche quando si è liberi da cento anni.

Appena una famiglia viene a sapere che un uomo discende da una famiglia di ex schiavi, annulla il matrimonio. “A Niamey questo succede tutti i giorni”, afferma Rissa. A Biga, rincasando un giorno, un uomo ha trovato il figlio piccolo solo e la casa vuota. La moglie era fuggita nella vicina Lybia, dopo essere stata convinta dai fratelli che suoi marito era una sorta di intoccabile a causa della sua storia familiare. In questo paese mussulmano per il 98% “esiste ancora un’altra forma di schiavitù – prosegue il presidente di Timidria – è il sistema detto della quinta sposa. Il Corano vieta di prendere più di quattro mogli, ma se ne volete un’altra potete comprarla. Non avrà alcun diritto e può essere violentata quando il capo di famiglia lo vuole”.

 

“Io spero che un giorno sarò libero, ma se Dio non vorrà resterò come sono” 

Per arrivare al pozzo di Koutou, in piena foresta, a 90 chilometri da Abalak, bisogna fare due ore di strada con una guida. In questo paesaggio di terra gialla e di piccoli arbusti dalle temibili spine non c’è nemmeno una pista. Nessun rappresentante dello Stato del Niger ha mai messo piede in questo angolo abbandonato di un paese grande come quasi tre volte la Francia, ma per due terzi desertico. La maggior parte degli abitanti ignora perfino che la Francia ha un tempo colonizzato il paese, come non conosce chi è alla testa dello Stato, o addirittura se vi è uno Stato. A partire delle 5, ogni mattina è “l’ora di punta”. Prima che cominci la calura – il termometro può salire fino a 50° - uomini e animali si agitano davanti a questo punto d’acqua di 80 metri di profondità. Il pozzo appartiene a Adulai Achen, un tuareg “rosso” (JAN BANZA) (vale a dire di colore chiaro per contrasto ai Tuareg neri)  che possiede 100 schiavi. Yahaya Mohamet, di etnia igdalen, è nato qui. Sono cinquanta anni che lavora per Adulai Achen, si occupa delle capre. Domani tornerà con gli asini per portare dell’acqua – comincia a raccontare accoccolato sotto un cespuglio smilzo che proietta qualche centimetro quadrato d’ombra, prima di essere immediatamente raggiunto da uno dei suoi padroni. Di sei figli che ha, cinque sono fuggiti.

Qualche chilometro più lontano, Bilal Benou si agita intorno al pozzo si Samara, proprietà di Aboubakar Achen. “Anche tutte le donne del posto – ci confida – appartengono ad Aboubakar”. La mattina viene al pozzo poi ritorna a casa del padrone e attende istruzioni: cercare gli animali nella savana, andare a coltivare il miglio o i fagioli, ma lui non ha più la forza per questi lavori duri, spiega mostrando le braccia magre. Qualche volta deve mendicare il cibo da gente che conosce nella savana. Spesso il padrone lo maltratta. Tuttavia non mai pensato di fuggire. “Come ci si può porre la questione? – domanda – Io spero che un giorno sarò libero, ma se Dio non vorrà resterò come sono”. Bilal Benou ignora che la legge vieta la schiavitù nel suo paese. In questa regione ci si preoccupa poco di questo genere di leggi. La vita continua sempre uguale da generazioni.
“Quando ho invitato mio padre a fuggire – racconta Ahmed Rissa – mi ha risposto: E’ Dio che ha voluto questo. Tu non sei un buon mussulmano!”
Idrissir Anasbagahar, la giovane segretaria della sezione di Timidria di Abouhaya, ad un centinaio di chilometri nella savana, ha svolto una inchiesta per cercare di censire gli schiavi. “Da queste parti ci sono due pozzi e 6000 schiavi. Continuando, al di là del terzo pozzo, ce ne sono 20.000”

Sono appena le 8, ma la folla si pressa già nei corridoi del tribunale di Abalak. Ibrahim Djirmey, in carica solo da qualche mese, svolge le funzioni di giudice istruttore, di procuratore, di giudice di applicazione delle pene, di giudice minorile. Molto per un uomo solo. “Quando ho assunto le mie funzioni – spiega il giovane magistrato – la prima sorpresa è stata di constatare fino a quel punto era tenace la pratica della schiavitù. Alcuni si giustificano dicendo che è la legge naturale, ci sono i padroni e ci sono gli schiavi”.
Due mesi dopo il suo arrivo, è stato incaricato del caso di una ragazza di circa 18 anni, Halota Ibrahim, che aveva marciato tre giorni per sfuggire ai maltrattamenti del suo padrone. La giovanissima ragazza – lei stessa ignora la sua età – che è scappata insieme al suo piccolo di 5 anni, Seidoumo, racconta con una vocina appena percettibile che il suo proprietario la picchiava continuamente”.
“Noi abbiamo una giustizia da terzo mondo – deplora il giudice con fatalismo – non siamo in grado di svolgere inchieste sul posto, qui bisogna sollevare montagne solo per procurarsi un po’ di carburante. C’è una sola macchina della gendarmeria per 800.000 abitanti, niente telefono. Prima che arriviamo sul posto, data la permeabilità delle frontiere, la gente se ne è già andata. Una giustizia senza mezzi non può funzionare che parzialmente”.

Per controbilanciare l’inerzia del governo, Timidria, che è riuscita a impiantare 690 uffici in tutto il paese – generalmente la modesta abitazione del suo rappresentante locale -, educa i Nigeriani organizzando delle grandi assemblee popolari fin negli angoli più sperduti del paese. L’ONG accoglie gli schiavi in fuga, senza mezzi, a volte privi perfino di vestiti, li prende in carico, li aiuta a diventare autonomi. Bastano tre capre (due femmine ed un maschio) per formare in due anni un gregge di 10 capi. I nomadi possono così tentare di sistemarsi e mantenersi. Il costo è modesto: una capra vale tra i 15000 ed i 25000 franchi CFA (dai 23 ai 38 euro). Timidria, aiutata dall’ONG inglese Oxfam, ha anche istituito 15 scuole per i figli dei nomadi liberati; altre dieci saranno aperte quest’anno. “La liberazione è legata all’istruzione – spiega Weila – per riuscire a convincere gli schiavi a partire, bisogna riuscire nell’opera di reinserimento, altrimenti ci faremo una cattiva reputazione e non potremo più agire”. Il cammino della liberazione è solo all’inizio.

Dal nostro inviato speciale Jean Sébastien Stehli  




Un principe Nigerino rompe il tabù sulle pratiche schiavistiche

 

Niger – 31 marzo 2008  APANEWS

 

“Un tabou brisé” dell’attivista nigeriano Mustapha Kadi, un libro sulla schiavitù, è stato presentato sabato al pubblico del Centro culturale franco-nigerino Jean Rouch di Niamey

L’autore di quest’opera inedita ha analizzato minutamente il contenuto del suo libro, ricostruendo l’itinerario di lotta che da anni lo impegna contro la schiavitù, come componente dell’associazione “Réagir dans le monde”.

Spiegando le ragioni che l’hanno indotto a scrivere la sua opera, Mustapha Kadi, anche lui figlio di un capo tradizionale, ha sottolineato che “tutto è cominciato il giorno in cui , giovane studente a Konni (a sud di Niamey), ho incontrato Tiaoula, una schiava della mia famiglia, in fuga…”

“Benché principe, ho vissuto nel cortile della scuola con i figli degli schiavi senza rendermene conto. Ed è stato difficile – confida – convincere i miei del carattere vile di questa pratica”.

Attivista dei diritti umani, l’idea del libro “Un tabou brisé” risale al 25 dicembre 2003 a Tahoua (nord est), quando l’autore ha preso parte alla liberazione di una decina di schiavi della sua famiglia, in presenza di capi tradizionali venuti da diverse contrade del Niger.

“Un tabou brisé” – spiega - vuole essere uno strumento di “denuncia senza tregua delle pratiche schiaviste ed un grido di cuore per la realizzazione di iniziative che sradichino la schiavitù in Niger ed in altri paesi”.

Il Niger è il primo paese dell’Africa francofona ad avere criminalizzato la schiavitù a mezzo di una legge speciale che prevede delle ammende dissuasive.

In questi giorni si sta svolgendo nel paese una inchiesta nazionale sulle pratiche schiaviste, su richiesta della Commissione nazionale dei diritti dell’uomo.