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TelQuel 21/27 febbraio 2007

Troppo, è troppo!


Editoriale di Ahmed R. Benchemsi

Tutta la professione freme ancora di indignazione. La scorsa settimana il settimanale Al Ayam è stato preso d’assalto dalla Brigade nationale della Polizia giudiziaria (che normalmente si occupa di terrorismo, non so se mi spiego…). Non meno di 20 agenti in borghese, talkies-walkies in mano, schierati negli uffici, nella tromba delle scale, in ogni pianerottolo del palazzo dove c’è Al Ayam… Il direttore, Noureddine Miftah, e la redattrice capo, Maria Moukrim, non erano in redazione, gli agenti della BNPJ sono andati a prenderli, la seconda a casa sua, il primo in un palazzo localizzato per triangolazione, grazie ai segnali GPS di un portabile (waw!). Sono seguiti interrogatori da 4 a 6 ore, minacce appena velate, l’intervento del capo della BNPJ in persona (non ci sono più terroristi da braccare in questo paese?), in comunicazione permanente con chissà chi al telefono…
E perché tutto questo? Perché i nostri colleghi avevano, in un cassetto, una foto di Lalla Latifa, la madre di Mohammed VI. Una immagine compromettente, un segreto di Stato? Per niente! Si trattava di una semplice foto formato tessera, presa quando la regina madre era giovane. Il colmo è che la polizia ha saputo dell’esistenza di questa foto… solo perché lo stesso Miftah aveva, assai correttamente, chiesto al gabinetto reale l’autorizzazione a pubblicarla!! Dopo questo, provate ad essere corretti…
Per spiegare il rodeo che i nostri colleghi hanno dovuto subire, si possono fare molte ipotesi.  Si parla di quel  tal cortigiano che avrebbe ecceduto in zelo, ordinando un interrogatorio degno di Jason Bourne… O anche di un regolamento di conti tra “servizi”: in breve, uno avrebbe trattato questa vicenda con diplomazia, mentre un secondo vi si sarebbe gettato sopra in modo grossolano, con l’intenzione di screditare il rivale agli occhi del re…  E’ confuso, non ci capite niente? Rassicuratevi, anche io.
In tutto questo, nessuno si meraviglia che la BNPJ, fiore all’occhiello della polizia di “azione” marocchina, sia utilizzata da mani invisibili per terrorizzare dei giornalisti – ad onta di tutte le gerarchie, giacché il ministro dell’interno è caduto dalle nuvole quando ha saputo cosa era successo! Storia, quanto meno, da ricoprire di una vernice di legalità, ci si contenta di segnalare che l’operazione sarebbe stata fatta su “ordine del procuratore generale di Casablanca”… come se egli stesso non riceva istruzioni da nessuno!
All’origine di tutto questo, c’è il famose dahir (decreto reale, ndt) del 1956, che vieta la pubblicazione di “fotografie di Nostra Maestà e delle Altezze reali”, senza “l’autorizzazione preventiva  del Gabinetto imperiale”. Viste le centinaia di foto del re, sia pubbliche che private, che vengono pubblicate tutti i giorni sulla stampa marocchina senza autorizzazione di alcuno, si capisce che è una sciocchezza. E poi, diciamolo chiaramente, questo dahir  è assolutamente contestabile. Con tutto il rispetto dovuto alla famiglia reale, dalla regina madre al più oscuro dei cuginetti di Mohammed VI, questa gente dovrebbe ricordarsi ogni tanto che la loro vita è integralmente finanziata dalle nostre tasse – le vostre e le mie. Per questa ragione, il minimo della cortesia sarebbe di mostrarci i loro visi. In Inghilterra la stampa si alimenta degli affari privati più lugubri delle altezze reali (sbandate, ubriacature, infedeltà…) giungendo ad occuparsi anche dei grammi di cellulite sui fianchi di qualche principessa sorpresa in costume da bagno, foto prima/dopo a dimostrazione… Certamente questo voyeurismo non onora la stampa, ma non è altro che una delle cose che la democrazia permette.
Il Marocco non è una democrazia, bene inteso. Ma non è perché noi giornalisti marocchini rispettiamo un certo grado di autocensura… che il Palazzo può sentirsi libero di schiacciarci il naso nella polvere, al minimo sbalzo di umore del minimo sotto pifferaio. “Il re non lo sapeva”, dicono le anime buone, Ah sì? Bene, ammettiamolo. Adesso però lo sa. E certamente sa chi è stato ad ordinare tutto questo . Che questa persona sia almeno punita. E che noi lo sappiamo. O anche questo è chiedere troppo?  




Maria Moukrim – giornalista

1976 – nasce a Casablanca
1998 – si diploma all’Istituto superiore di giornalismo e informazione
2001 – viene assunta da Al Ayam, dopo aver lavorato per Assahifa
2005 – Pubblica un’inchiesta sugli harem reali che le procura una condanna a quattro mesi di prigione e 100.000 dhirams di ammenda
2005 viene insignita del premio Mohammed VI della stampa, per la migliore inchiesta giornalistica
2009 – viene trattenuta dieci ore dalla Brigade Nationale de la Police Judiciaire (BNPJ), in relazione ad una fotografia della madre del re


 



L’interrogatorio di Souleiman Bencheikh a Maria Moukrim

 

La cosa più dura è la hogra (la rabbia, il senso di ingiustizia patita, ndt)

Smyet bak? (nome del padre)
Mahjoub


Smyet mok? (nome della madre)
Zoubida


Numero della carta d’identità?
Non me lo ricordo


E però questa non è la prima volta che glielo domandano…
Aspetti (fruga nella borsa), ecco: BH543265

Non ne ha abbastanza di rispondere alle domande dei poliziotti?
Confesso di essere stanca. Sono stufa del fatto che il mio lavoro sia alla mercé della benevolenza della polizia. Come giornalista ho bisogno di un minimo di libertà per poter fare informazione e rientrare la sera a casa senza preoccupazioni. Senza, soprattutto, essere minacciata ed umiliata come la settimana scorsa

Ci racconti cosa è successo…
E’ semplicissimo. Avevamo deciso di fare un dossier sulla madre del re, Lalla Latifa, una donna allo stesso tempo importante e sconosciuta. E vi assicuro che abbiamo rispettato le regole che stabiliscono che sia richiesta l’autorizzazione del Palazzo  per pubblicare foto della famiglia reale.  D’altronde la risposta è stata cortese: il nostro intermediario ci ha riferito che non era questo il momento buono per pubblicare un tale dossier ed una tale foto


Ok, e dopo?
E’ stato come in un film di Hitchcock. Lo stesso giorno in cui abbiamo ricevuto la risposta dal Palazzo (risposta che avevamo intenzione di rispettare), il mio direttore, Nourredine Miftah, ha ricevuto una telefonata sospetta: un uomo che diceva di essere in pericolo di vita e dichiarava di possedere informazioni importantissime su un gruppo terrorista.


E poi?
Sfortuna ha voluto che uno dei nostri giornalisti abbia fiutato l’imbroglio: aveva ascoltato i poliziotti della BNPJ che avevano fatto loro stessi quella telefonata proprio davanti alla porta degli uffici del giornale. Ha avvertito Miftah che si stava tramando qualcosa di losco. Miftah, avvertito, non si è dunque presentato al falso appuntamento, ma la BNPJ è riuscita ugualmente a localizzarlo, grazie al sistema GPS del suo telefono mobile. Il seguito lo conoscete

Nourredine Miftah è stato costretto a lasciare una ventina di poliziotti frugare i vostri uffici alla ricerca di una foto di Lalla Latifa. Ma lei dov’era durante tutto questo tempo?

La BNPJ è venuta a prendermi a casa ma. C’era anche mio fratello, hanno preso anche lui. Ci hanno sequestrato tutti i nostri telefoni mobilie. Erano sei uomini, tutti per me. Tre automobili. Guardate che film!



Ha provato paura?
Paura no, veramente. Ho provato solo un vero sentimento di hogra, è indescrivibile, una terribile ingiustizia.

Ha risposto a tutte le domande che le ha rivolto la polizia?
Tutte, assolutamente, salvo quelle che violavano la mia etica professionale e, talvolta,la mia dignità. Io non ho niente da nascondere e non ho fatto niente di male.



Torniamo al problema di fondo: lei non sa che la madre di Sidna (Mohammed VI) è il tabù più grande?
(risate) Non è quello che ci ha risposto il Palazzo. Ci hanno solo detto chiaramente che non era il momento buono per ricordare il personaggio.

Sia. Ma cosa rappresentavano le foto in questione?
Era una foto molto bella di Lalla Latifa, dove ha un vero portamento da regina, determinata. Niente di scioccante, vi assicuro. Anzi, tutto il contrario.

Cosa vuol dire?
Noi intendiamo prenderci il tempo per realizzare un serio dossier sulla madre del re. E’ una persona molto poco conosciuta e, le rare volte in cui è stata oggetto di interesse mediatico, ha dato di sé un’immagine molto positiva. Noi vogliamo giusto scavare un po’ di più. Ma apparentemente il problema è anche che noi siamo stati i primi ad interessarci di lei.



I vostri avversari vi accusano di non rispettare l’intimità della famiglia reale. Che cosa rispondete?
Prima di tutto, ripeto che noi abbiamo rispettato scrupolosamente le regole; se abbiamo chiesto il parere del Palazzo, è perché intendevamo uniformarvici. Inoltre io sono una figlia di questo paese, una bent l’blad, e rispetto l’intimità così come la concepisce la società marocchina. Il mio solo obiettivo è di informare e comprendere.

Anche se il prezzo da pagare è, qualche volta, di oltrepassare le linee rosse?
In un paese come il Marocco è normale che ci siano delle linee rosse, ma è altrettanto normale che i giornalisti cerchino di oltrepassarle. Io sono una giornalista di inchiesta. E’ importante per esempio fare delle inchieste sugli svaghi del re, aiuta a comprendere maglio la personalità del Capo dello Stato. Allo stesso medo io credo ci sia vero interesse a sapere chi era veramente la madre del re.

A distanza di tempo, che cosa avete imparato dalla vostra disavventura?
Che il cammino verso lo stato diritto e la libertà di espressione è ancora lungo. Comunque più lungo di quanto pensassi.

Pessimista?

Per niente, altrimenti  non sarei qui a chiudere il nuovo numero del giornale. Se fossi davvero pessimista avrei dato le dimissioni. Io penso che il Marocco possa permettersi di fare a volte due passi avanti e uno indietro. In ogni caso io sono pronta ad accettarlo, perché il paese globalmente marcia in una buona direzione.



E’ questo il caso?
Noi non siamo in Tunisia, non bisogna dimenticarlo.  Dopo tutto Moahmmed VI è stato lui stesso a consentire che fossero oltrepassate le linee rosse. Ha posto sua moglie in primo piano sulla scena, ha medializzato sua figlia… Ce n’è abbastanza per dire chiaramente: sì, noi siamo sulla buona strada, malgrado certe forze retrograde.



Lei si considera come una combattente per la libertà di stampa?
Francamente no. Io sono una giornalista, non ho alcun obiettivo politico  e non voglio essere un simbolo. Il mio obiettivo è di informare. E’ questo il mio mestiere, quello che so fare. Tanto meglio, del resto, se questo fa avanzare la causa della libertà, ma noi stiamo adesso beneficiando delle lotte dei giornalisti e della gente che ci ha preceduto. Non bisogna sputare sulle conquiste, almeno non è questo il mio genere.