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Le Grand soir, 16 gennaio 2013 (trad.ossin)



Dopo Sarkozy in Libia, Hollande vittima di un miraggio in Mali
Gli attacchi francesi in Mali contro la prudenza degli Stati uniti
Adam Nossite, Eric Schmitt, Mark Mazzetti


Io non so quale sia il gioco del governo algerino, che ha concesso alla Francia il suo spazio aereo per attaccare in Mali.
Era forse il prezzo da pagare per le dichiarazioni arzigogolate di François Hollande nel corso del suo ultimo viaggio ad Algeri, o il ringraziamento per avere ascoltato senza protestare la corale femminile che cantava le sue lodi a Tlemcen.

In ogni caso, anche se l’impegno algerino non si spingerà oltre, si tratta comunque di un errore e di un tradimento dei principi che hanno animato la lotta anticoloniale.

Quanto poi a sapere cosa abbia spinto la Francia a intervenire senza mandato dell’ONU e sedicentemente su richiesta di un governo che gode della scarsa legittimità che può dare un colpo di stato…

La Francia sta tentando adesso di regolarizzare la propria situazione all’ONU, spia di come Parigi sia in qualche modo consapevole della fragilità della giustificazione legale data al suo intervento.

Che è stata la necessità di garantire la sicurezza dei propri cittadini, qualche migliaio, che risiedono in Mali. Un ben strano argomento, che potrebbe essere utilizzato anche da qualcuno dei tanti paesi di origine dei migranti che risiedono in Francia, nel caso che all’Eliseo si insediasse qualche candidato estremista.

La verità è che la Francia è parte in causa per difendere i suoi interessi minerari e strategici e che, se pure essa sarebbe stata disposta a lasciare agire, sotto il suo controllo, una forza africana al comando di esponenti della Francafrica, non era in alcun modo disposta a permettere ad un’altra Potenza extra-africana di assumere l’iniziativa militare. Questa verità è d’altra parte stata con chiarezza espressa dal governo francese stesso, anche se i  giornalisti l’hanno annegata in un mucchio di altre considerazioni, soprattutto tecniche e tattiche.

François Hollande interviene militarmente in Africa in nome degli interessi della Francia e dell’Europa.

La Francia non poteva nemmeno lasciare  la prima fila agli Stati Uniti, che lavorano pazientemente da anni per scalzare la Francia dalla regione, anche se la loro strategia è stata in qualche modo perturbata dall’arrivo di quel nuovo protagonista che è la Cina.

E questo intervento francese cade alla fine piuttosto bene per gli Stati Uniti e, se si fa fede a quello che dice il New York Times, gli Statunitensi non sono per niente arrabbiati nel vedere la Francia infilarcisi, perché non avevano nessuna voglia di occuparsene loro: troppe complicazioni per un risultato aleatorio.

Certamente la Francia, con l’eventuale aiuto dei suoi “alleati” africani, ha tutti i mezzi per frenare, respingere e infliggere pesanti perdite ai miliziani che dominano attualmente il Nord del Mali (e anche alla popolazione civile, sia setto per inciso).

E l’azione potrebbe essere anche molto rapida.

Infatti il vero problema è quello della durata. Salvo a non volere occupare indefinitamente il Sahara e la regione saheliana, istallandovi dei posti militari, facendovi circolare unità motorizzate e pattugliandone regolarmente lo spazio aereo, i combattenti che si daranno alla macchia al di là del “limes”, ritorneranno non appena avranno ricostituito le loro forze.


Il limes romano in Africa
E, tenuto conto dell’instabilità (cui malauguratamente ha contribuito anche lo Stato algerino) e della povertà che regnano in una regione alla cui economia l’intervento in Libia (con la Francia in prima linea) ha dato un colpo durissimo, non c’è alcuna ragione per non dover credere che queste forze si ricostituiranno in termini assai brevi.

Per concludere, diremo che è per lo meno divertente vedere François Hollande andare a guerreggiare contro i cloni di quelli che sostiene invece ostinatamente in Siria.

Mounadil Al Djazairri





The New York Times, 13 gennaio 2013 (trad. Ossin)



Gli attacchi francesi in Mali contro la prudenza degli Stati uniti
Adam Nossite, Eric Schmitt, Mark Mazzetti


Bamako, Mali. Aerei da combattimento francesi hanno colpito in profondità i bastioni ribelli del nord del Mali questa domenica, ponendo fine a mesi di esitazione internazionale a proposito di un’azione militare nella regione e dopo il fallimento di tutti gli altri tentativi degli Stati Uniti e dei loro alleati per bloccare gli estremisti.

Per anni gli Stati Uniti hanno tentato di arginare la diffusione della presenza islamica nella regione, mettendo in opera il più ambizioso dei loro programmi di lotta contro il terrorismo lungo le vaste distese turbolente del Sahara.

Ma quando gli insorti hanno invaso tutto il deserto l’anno scorso, i comandanti delle unità di élite dell’esercito di questo paese, addestrati minuziosamente per anni dagli Stati Uniti, hanno fatto defezione proprio nel momento in cui c’era più bisogno di loro – per passare al nemico in piena battaglia, coi loro uomini, i loro fucili e le loro nuove competenze, secondo quanto riferito da ufficiali superiori malieni.

“E’ stato un disastro”, conferma uno degli ufficiali malieni. Poi un ufficiale formato dagli Stati Uniti ha rovesciato il governo legittimo del Mali, preparando il terreno perché più della metà del paese cadesse nelle mani degli estremisti islamisti. Gli aerei spia e i droni di sorveglianza USA hanno tentato di mettere ordine in questo casino, ma gli ufficiali USA e i loro alleati hanno ancora tanto da triturarsi le meningi per farsi un’idea precisa della situazione che debbono affrontare.

Ora, nonostante gli oramai antichi avvertimenti USA sul rischio che un attacco occidentale al bastione islamista richiamerebbe jihadisti da tutto il mondo  e incoraggerebbe gli attacchi terroristici anche oltre l’Europa, i Francesi sono entrati da soli in guerra.

Hanno prima di tutto frenato l’avanzata islamista, affermando che il resto del Mali sarebbe caduto nelle mani dei militanti in qualche giorno. Poi, domenica, gli aerei da combattimento francese sono passati all’offensiva, attaccando campi di addestramento, depositi e altre posizioni all’interno del territorio controllato dagli islamisti, con l’obiettivo di disperdere i militanti che hanno creato lì uno dei più importanti covi del mondo per gli jihadisti.

Alcuni ufficiali del Dipartimento della difesa, particolarmente del Joint Special Operations Command al Pentagono, avevano proposto una campagna di uccisioni (lethal campaign) per eliminare i massimi dirigenti di due delle organizzazioni estremiste che controllano il nord del Mali, Ansar Dine e Al Qaida nel Maghreb islamico (AQMI). Uccidere i capi, hanno sostenuto, potrebbe provocare una dissoluzione interna.

Ma giacché tutta l’attenzione e le risorse sono concentrati su altri conflitti, come il Pakistan, lo Yemen, la Somalia e la Libia, l’amministrazione Obama ha respinto questa ipotesi di intervento a favore di una strategia più prudente e di una azione indiretta: aiutare le nazioni africane a respingere e contenere la minaccia con le loro  proprie forze.

Negli ultimi quattro anni gli Stati Uniti hanno dispensato tra 520 e 600 milioni di dollari in un ampio programma per combattere la presenza islamica nella regione senza ricorrere a guerre come quelle fatte in Medio oriente. Questo programma riguardava un’area che si estende tra il Marocco e la Nigeria e gli alti gradi militari USA presentavano l’esercito malieno come un partner esemplare. Le forze speciali USA avevano addestrato i soldati malieni ai tiri di precisione, al pattugliamento delle frontiere, alle imboscate e alle atre tecniche di antiterrorismo.

Ma tutto il lavoro fatto si è rapidamente dissolto quando combattenti islamisti agguerriti e armati di tutto punto sono rientrati dal fronte libico. Si sono alleati a jihadisti come Ansar Dine, hanno sbaragliato le forze maliene male equipaggiate e le hanno a tal punto demoralizzate che ne è seguito un ammutinamento contro il governo nella capitale, Bamako.

Una valutazione confidenziale interna, effettuata lo scorso luglio dall’Africa Command (Africom) al Pentagono, aveva concluso che il colpo di stato era stato troppo improvviso perché il comando USA o gli analisti dei servizi di informazione potessero coglierne dei sintomi affidabili.

“Il colpo di stato in Mali è stato troppo repentino e si erano manifestati labili sintomi”, spiega il colonnello Tom Davis, un portavoce del comando. “La scintilla che lo ha fatto scoppiare si è prodotta tra gli ufficiali di livello intermedio che hanno finito col rovesciare il governo, non tra i gradi superiori, dove si sarebbero potuti ravvisare più facilmente dei segnali di allarme”.

Ma un ufficiale delle Forze di Operazione Speciali non è d’accordo e sostiene: “La situazione ribolliva da cinque anni. Gli analisti erano troppo compiacenti nelle loro ipotesi e non avevano visto i grossi cambiamenti che si andavano producendo e il loro impatto, come l’armamento pesante proveniente dalla Libia e la natura differente, più islamista, dei combattenti che rientravano”.

Le stesse unità dell’esercito che erano state addestrate dagli Stati Uniti, e che venivano considerate come la migliore arma per respingere questa avanzata, si sono dimostrate alla fine dei conti essere la causa della disfatta militare del paese. I capi di queste unità di élite erano dei Tuareg – la stessa etnia nomade che ha invaso il nord del Mali.

Secondo un ufficiale superiore, i comandanti Tuareg di quattro unità maliene, che combattevano nel nord all’epoca, hanno fatto defezione a favore dell’insurrezione “nel momento cruciale”, portando co loro gli uomini, le armi e un po’ di equipaggiamento. Aggiunge che sono stati raggiunti da circa 1600 altri transfughi dell’esercito malieno, assestando un colpo severo alle speranze del regime di resistere all’offensiva.

“L’aiuto degli USA si è rivelato inutile”, dichiara un altro ufficiale superiore malieno, impegnato al momento nei combattimenti. “Hanno fatto delle scelte sbagliate – dice - affidandosi ai capi di un gruppo (etnico) che da cinquanta anni si ribella allo Stato malieno.

La quasi dissoluzione dell’esercito malieno, ivi comprese le unità addestrate dalle forze speciali USA, seguito da un colpo di stato comandato da un ufficiale formato dagli Stati Uniti, il capitano Amadou Sanogo, ha sorpreso e messo in imbarazzo l’alto comando militare USA. 

“Sono rimasto molto deluso nel vedere un militare che noi avevano formato partecipare ad un colpo di stato contro un governo eletto”, ha dichiarato il generale Carter F. Ham, comandante dell’Africom, nel corso di un discorso pronunciato alla Brown University il mese scorso. “Non si può definire tutto questo se non come totalmente inaccettabile”.

Gli ufficiali USA difendono la loro attività di addestramento dell’esercito malieno, dicendo che essa non aveva mai preteso di essere completa come quella che gli USA hanno realizzato in Iraq o in Afghanistan. “Noi abbiamo addestrato cinque unità in cinque anni, ma questo basta a costruire un vero esercito solido come la roccia?” si chiede un ufficiale dell’esercito USA bene informato.

Dopo il colpo di stato, gli estremisti hanno messo rapidamente da parte i Tuareg nel nord del Mali e applicato una versione dura dell’islam, tagliando mani, flagellando gli abitanti e spingendo alla fuga decine di migliaia di persone. I paesi occidentali hanno allora adottato una strategia di arginamento, sollecitando i paesi africani a chiudere il nord del paese e aspettando di essere in grado di mettere un insieme un esercito per dare la caccia agli islamisti, al più tardi in autunno. A tal fine il Pentagono ha fornito alla Mauritania dei nuovi camion e al Niger  due aerei di ricognizione Cessna, oltre alla formazione militare.

Ma anche  questo piano è fallito perché gli islamisti sono avanzati a sud in direzione della capitale. Con migliaia di cittadini francesi in Mali, la Francia ha deciso che non poteva più attendere e ha bombardato i militanti sulla linea del fronte e all’interno del territorio.

Alcuni esperti ritengono che truppe straniere potrebbero facilmente riconquistare le grandi città del nord del Mali, ma che i combattenti islamisti hanno arruolato forzatamente anche i bambini, cosa che scoraggia ogni ipotesi di invasione, e potrebbero ricorrere a tattiche di guerriglia sanguinose.

“Hanno organizzato le città per farne delle trappole mortali”, dichiara Rudy Atallah, l’ex direttore della politica di controterrorismo del Pentagono. “Se una forza di intervento arriva là, i militanti faranno una guerriglia insurrezionale” 


Fonte : http://www.nytimes.com/2013/01/14/world/africa/french-jets-s
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Adam Nossiter reported from Bamako, Eric Schmitt from Niamey, Niger, and from Washington, and Mark Mazzetti from Washington. Steven Erlanger contributed reporting from Paris.