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L’Expression, 22 marzo 2011


L’Irachizzazione della Libia
di Chems Eddine Chitour


17 marzo, una data da ricordare. Quel giorno un paese arabo, nell’occasione la Libia, si è avviato verso un processo di divisione territoriale. Mollato dai suoi, è diventato oggetto di una cura sapientemente preparata da diversi mesi per impadronirsi delle sue ricchezze petrolifere (2 o 3 volte quelle degli Stati Uniti). Come in Iraq, lo scenario è ben rodato, si tratta questa volta di proteggere i Libici da Gheddafi. Dopo l’Iraq, dopo la Somalia, dopo il Sudan, ecco il turno della Libia. Noi dobbiamo prendercela solo con noi stessi perché, se l’imperialismo viene in soccorso dei dissidenti ch’egli stesso ha creato, è perché i potentati arabi non hanno mai voluto saperne dell’alternanza. L’islam deve ancora essere difesa da braccia deboli e fataliste che accettano il loro destino senza lottare e senza progredire nella scienza e nella tecnologia.
Per la storia, la Francia e la perfida Albione (Inghilterra) sono state protagoniste di tutte le spedizioni contro gli Stati deboli. Nel 1856, attaccano l’Impero ottomano; pretesto: proteggere le minoranze cristiane. Poi nell’ottobre 1860 viene l’attacco alla Cina descritto in modo pungente da Victor Hugo. 1917, lo smembramento dell’impero ottomano attraverso i sinistri accordi Sykes-Picot. Nel 1956 la Francia attacca col suo vecchio complice di sempre, l’Inghilterra, e Israele, l’Egitto. Nel 1991 è nella coalizione contro l’Iraq. Nel 2008 è in Afghanistan. Una sola volta si è opposta all’avventura irachena di Bush, ma invano. La Francia del presidente Sarkozy si pone alla testa di una crociata – Gheddafi dixit – contro un potentato arabo, Gheddafi appunto, al potere da 42 anni.


Le reticenze del mondo
“Bisogna sapere che, non calcolando i paesi occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia), il 90% del pianeta non è d’accordo con l’azione di forza. Secondo l’Unione Africana, la coalizione USA-Europa ha messo in esecuzione la dichiarazione di guerra alla Libia, effettuando diversi attacchi marittimi ed aerei sul paese, provocando una cinquantina di morti e quasi 200 feriti tra la popolazione, approfittando della risoluzione 1973 dell’ONU che raccomanda delle “misure di protezione per i civili libici”. La Francia, che fa di questa offensiva una faccenda personale, appoggiata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, ha fatto approvare sabato a Parigi questo intervento nel corso di una riunione della Unione Europea e della Lega Araba, a onta della posizione dell’Unione Africana che intende privilegiare la via diplomatica e chiede l’arresto immediato delle ostilità. In effetti la coalizione USA-Europa sembra aver deciso di cogliere di sorpresa il panel africano sulla Libia, creato dall’Unione africana e che si è riunito questo stesso sabato a Nouakchott, capitale della Mauritania, per facilitare un dialogo tra le diverse parti sulle riforme necessarie.
Allo stesso modo, riferisce Le Nouvel Observateur, “l’intervento militare avviato sabato 19 marzo in Libia non ha trovato il consenso unanime della comunità internazionale. I BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) prudenti, le grandi potenze emergenti si sono segnalate per il rifiuto di ogni ingerenza. La Russia ha invitato domenica la coalizione internazionale a cessare il ricorso alla forza in maniera “non selettiva” provocando vittime civili. La risoluzione dell’ONU “è stata adottata in fretta”, aveva lamentato Mosca. “Bisogna rapidamente fermare gli spargimenti di sangue  e occorre che i Libici avviino un dialogo”, ha dichiarato sabato il portavoce del Ministero russo degli affari esteri. “Pechino esprime il suo disappunto per gli attacchi militari contro la Libia”, riporta un comunicato. “Noi speriamo che la Libia possa ritrovare la stabilità al più presto possibile ed evitare le nuove vittime civili che sarebbero provocate da una escalation del conflitto armato”. E l’India che “si dispiace”, domenica 20 marzo, per gli attacchi aerei della coalizione, e “valuta con grande inquietudine il proseguire della violenza, dei conflitti e il deterioramento della situazione umanitaria in Libia”. “Non c’è dubbio che sono gli interessi il motivo essenziale di questa azione militare, il petrolio ne è il carburante”,  scrive il quotidiano che denuncia “gli aspetti politici e coloniali”  dell’intervento. In Venezuela Hugo Chavez si è mostrato particolarmente offensivo giudicando “irresponsabile” l’intervento armato.  La Turchia chiede un riesame dei piani che la NATO prepara da settimane per la Libia, ritenendo che tutto cambia dopo l’intervento armato della coalizione. Anche l’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, Catherine Ashton, ha rifiutato di riconoscere il CNT (Consiglio nazionale di transizione) e si oppone alla zona di esclusione aerea. Per l’universitaria tedesca Annette Kaiser, la Germania è refrattaria alle politiche di intervento militare comune. E si è pronunciata contro un’operazione militare in Libia e contro la realizzazione di una zona di esclusione aerea. Non si può mai sapere che scoppi una guerra civile (…)
Si pongono così delle domande sulle vere ragioni dell’intervento in Libia. E’ stato davvero fatto in nome dei diritti umani? In questo caso, perché è stata scelta la Libia? E non la Costa d’Avorio? Lo Zimbabwe? E’ noto che gli Stati mettono in gioco la loro potenza militare solo quando sono coinvolti i loro interessi diretti…  Riteniamo che Sarkozy intenda risolvere anche dei problemi di politica interna con la crisi libica. Il suo tasso di popolarità catastrofico nei sondaggi, l’immagine offuscata della Francia durante le rivoluzioni tunisina ed egiziana… la Libia, è diventata una bella occasione per apparire come un difensore dei diritti umani”. Anche in Francia, Jean-Marie Le Pen ha fermamente criticato la posizione francese, sospettando che dietro gli invocati motivi umanitari si nascondessero delle motivazioni meno confessabili: il controllo del petrolio libico. Ha anche criticato il ruolo giocato in questi ultimi giorni da Bernard Henry Lévy, diventato una specie di ministro degli affari esteri bis.

L’attacco della Libia era pianificato da diversi mesi
Secondo Gilles Munier, “tutto era già stato preparato prima. Sarkozy voleva la guerra. L’ha avuta – col forcipe – grazie a Bernard-Henri Levy, Alain Juppé e al governo conservatore inglese. Un’esercitazione militare di grande ampiezza franco-britannica, pianificata in tre mesi –invece dei soliti sei – gli ha facilitato il compito. E’ pronto per attaccare “Southland”… tra il 21 e il 25 marzo, un paese immaginario con un “regime dittatoriale” nel sud del mediterraneo. Nome in codice dell’operazione “Southerm Mistral”, e quello del primo attacco: “Desert Storm”! Essa oggi è programmata per il vero, qualsiasi sia il nuovo nome che le sarà attribuito. Per attaccare la Libia, dunque, non mancava che un rivestimento diplomatico, vale a dire l’appoggio del Consiglio di sicurezza dell’ONU e la costituzione di una coalizione comprendente “i nostri vecchi buoni amici arabi”. E’ stato fatto, d’urgenza.
Ricordiamolo: “Desert Storm – Tempesta del deserto” era il nome scelto nel gennaio 1991 dal Pentagono per l’attacco all’Iraq ordinato da George Bush (padre). L’operazione era stata preceduta da un’esercitazione quasi identica a “Southland”, diretta qualche mese prima in Kuwait dal generale Norman Schwarzkopf. (…) Il colonnello Gheddafi non è un angelo, ma si ha l’impressione di assistere a un copia incolla della campagna di demonizzazione del presidente Saddam Hussein: la Guida Libica “bombarda il suo popolo” (…) Dettaglio piccante: il Qatar, gli Emirati arabi uniti partecipano alla guerra per proteggere il popolo. Essi stessi  partecipano, con l’Arabia Saudita, anche all’oppressione del popolo del Bahrein. Bahrein, Yemen, Libia: una sola lotta. I tiranni del mondo uniti contro il popolo in lotta”. “Sul piano regionale, le cose rischiano di complicarsi. Se le petromonarchie del Golfo non nascondono il loro sostegno all’intervento occidentale, la Turchia  e l’Algeria, che condividono una comune diffidenza nei confronti di questo ritorno sensazionale della Francia sulla scena internazionale e maghrebina, si trovano di fronte ad una sfida strategica e diplomatica più difficile. Se la Turchia deve confrontarsi con l’endemica ostilità della Francia di Sarkozy, violentemente contraria all’ingresso della Turchia nella UE, l’Algeria sa che un intervento francese riuscito in Libia costituirà una minaccia diretta alla sua sicurezza nella regione del Sahel”.
Mohamed Tahar Benssada, paragonando le diplomazie turca ed arabe, descrive la prima come un successo di fronte all’insuccesso delle seconde. “Gli Occidentali esultano (…) La complessità della crisi libica, i cui ultimi sviluppi militari sul campo lasciano presagire una paralisi propizia a tutte le eventualità, spiega le tergiversazioni nel campo occidentale. Se si lasciano da parte gli argomenti ideologici pseudo-umanitari che servono ai media occidentali e arabi per giustificare un intervento occidentale, bisogna constatare che l’interventismo occidentale, ritrasmesso anticipatamente dalla Lega araba, obbedisce ad una grossolana logica di interessi. In Bahrein, dove una pacifica sollevazione in corso da diverse settimane per rivendicare una “monarchia costituzionale” e delle riforme sociali è stata e continua ad essere repressa nel sangue da un regime feudale e autocratico, né gli USA, né i loro alleati europei ed arabi hanno riscontrato dei “crimini contro l’umanità”, facendo appello ad un “dovere di ingerenza umanitaria”… (…) Fortunatamente, al fianco di questa diplomazia araba pusillanime, una potenza mussulmana sta per imboccare una strada diversa, che coniuga realismo e principi. Nel corso di un’intervista rilasciata al canale satellitare Al Arabiya, il Primo Ministro turco, Tayeb Erdogan, ha ricordato qualche principio che dovrebbe guidare qualsiasi diplomazia araba che si rispetti. Prima di tutto il leader turco ha ricordato l’esigenza di prendere in considerazione il desiderio di profondo cambiamento espresso dai popoli arabi, non senza precisare che questo cambiamento assumerà forme e ritmi propri ad ogni specificità nazionale. Ha riaffermato la posizione della Turchia di opposizione ad ogni intervento straniero. A questo proposito,  Erdogan ricorda di avere avuto un colloquio telefonico con Gheddafi, al quale ha consigliato di proporre una personalità che raccolga un consenso unanime, cui affidare la gestione di un periodo di transizione verso un regime costituzionale (…) Ma gli sviluppi militari sul campo vanno nella direzione di una paralisi durevole e pericolosa per la sicurezza e la stabilità della regione. Può darsi che l’unica soluzione che si offrirà agli USA e ai suoi alleati sia quella di trasportare militarmente gli oppositori di Bengasi fino a Tripoli! Se una tale eventualità dovesse realizzarsi, non sarebbe solo la diplomazia turca a uscirne rafforzata, ma anche la diplomazia araba, che potrebbe così liberarsi della tutela reazionaria delle petromonarchie del Golfo.


Cosa succederà dopo
Felicity Arbuthnot descrive in modo penetrante il futuro della Libia una volta normalizzata. Ascoltiamola: “Il bombardamento della Libia è cominciato lo stesso giorno – suppergiù – dell’ottavo anniversario dell’inizio della distruzione dell’Iraq. Si verificheranno molti tragici errori ed altri danni collaterali di madri, padri, figli, bimbi, nonni, scuole per sordomuti, ecc. Le infrastrutture saranno distrutte. L’embargo resterà operativo e renderà impossibile la ricostruzione. L’Inghilterra, la Francia e gli USA decideranno che il paese ha bisogno di essere stabilizzato, che bisogna aiutarlo a ricostruire. Arriveranno e prenderanno la direzione delle installazioni e dei giacimenti petroliferi; all’inizio i Libici saranno un problema accessorio, poi diventeranno presto il nemico, gli insorgenti. Si sparerà loro contro, saranno imprigionati, torturati, vittime di ogni sorta di abuso – e sarà istituito un governo fantoccio, amico degli Stati Uniti. Gli invasori firmeranno contratti per la ricostruzione, i soldi – che saranno certamente prelevati, senza contare i conti bloccati – sparirà e il paese resterà in rovine (…) Che cosa dire di questo orrore e stupore che attende la Libia? Vergogna per la Francia, vergogna per l’Inghilterra, gli USA e l’ONU che pretende di ‘proteggere le generazioni che verranno dal flagello della guerra’. I nomi di questi paesi e dell’ONU saranno scritti col sangue delle loro vittime: ogni corpo distrutto, ogni bambino storpiato o ridotto in poltiglia, ogni vedova, vedovo o orfano, su ciascuna delle loro tombe (…) Col tempo verremo a sapere chi ha tramato, corrotto, destabilizzato e sicuramente saranno pochi coloro che si meraviglieranno di quello che si scoprirà. Ma sarà troppo tardi, la Libia sarà ormai distrutta e la sua popolazione disperata sarà già scappata o sarà stata trasferita. Quando si ha a che fare con dei ‘liberatori’ bisogna stare attenti a quello che si dice. Nel giro di sei mesi o poco più, la maggior parte dei Libici rimpiangerà amaramente gli ultimi 40 anni, comunque siano stati”.
E’ detto tutto. L’irachizzazione prelude alla divisione territoriale, è ineluttabile. Tuttavia, si può mobilitare l’intelligenza. Il petrolio deve appartenere alla gioventù araba, noi abbiamo un’occasione unica nella storia per far rivivere la nostra civiltà, riconoscendo le nostre colpe e andando a marcie forzate verso il progresso, come fanno l’Indonesia, la Turchia e soprattutto l’Iran che, dal punto di vista scientifico, è un esempio da seguire. Sbarazziamoci dei nostri residui di imitazione, restiamo svegli, quello che succede in Libia rischia di succedere anche a noi, prendiamo le decisioni giuste prima che sia troppo tardi.