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ProfileKazakistan, 8 gennaio 2022 - Potrebbero non essere stati attori stranieri a promuovere i disordini, ma essi certamente influenzeranno notevolmente il modo in cui si chiuderanno (nella foto, disordini nella capitale del kazakistan)    

 

RT, 7 gennaio 2022 (trad.ossin)
 
L’intervento russo in Kazakhstan crea un precedente
Fyodor Lukyanov
 
Potrebbero non essere stati attori stranieri a promuovere i disordini, ma essi certamente influenzeranno notevolmente il modo in cui si chiuderanno
 
 
 
 
L’improvvisa fiammata di violenza in Kazakhstan ha colto gli analisti e gli osservatori internazionali di sorpresa. Ora, la decisione di dispiegare nel paese una forza regionale di mantenimento della pace è diventata l’ultimo decisivo obiettivo strategico per lo spazio post-sovietico.
 
Nelle prime ore della mattinata di giovedì, l’Organizzazione del trattato di sicurezza comune (OTSC) guidata dalla Russia, che raggruppa le forze armate delle sei ex Repubbliche dell’URSS, tra cui il Kazakhstan, ha annunciato che avrebbe dispiegato nel paese una forza di mantenimento della pace per ristabilire l’ordine, mentre i disordini si propagano in questo vasto paese dell’Asia centrale.
 
L’iniziativa tende a confondere le vicende interne ed esterne - Le ragioni che hanno portato il governo kazako sull’orlo del baratro sono di natura interna e si collegano ad una transizione politica prolungata e sempre più strana, dopo il regno di quasi tre decenni di Nursultan Nazarbayev.
 
E tuttavia, le manifestazioni di piazza, che sono state provocate dal prezzo dei carburanti e che hanno visto edifici governativi incendiati e alcune truppe arrendersi ai manifestanti, sono state immediatamente presentate come un atto di aggressione esterna da parte di « gruppi terroristi » stranieri. Sembra ormai che il nemico venga sempre dall’esterno, anche se in realtà è interno. Il pericolo esterno ha consentito di dichiarare ufficialmente che il paese è sotto attacco e di fare appello all’OTSC.
 
Non accadde lo stesso nel passato, quando ricorrenti eventi simili si sono registrati in Kirghizistan, o in Armenia, tre anni e mezzo fa. All’epoca l’OTSC – specialmente Mosca, ma anche gli stessi altri membri – aveva evidenziato le motivazioni interne dei disordini, affermando che non era necessario un intervento.
 
Stavolta però la situazione è diversa, e il confine tra affari interni ed esteri va offuscandosi in tutto il mondo. Da diversi anni, i liberal e gli attivisti delle ONG (governative) per i diritti umani alimentano una crescente confusione tra interno ed esterno, sostenendo che la sovranità nazionale possa essere messa da parte quando si tratta di diritti umani e delle libertà. Oggi le giustificazioni addotte per l’intervento riguardano la protezione e la prevenzione: una minaccia per la sicurezza nazionale del paese in questione e dei suoi vicini giustifica l’intervento.
 
Val la pena notare che, stavolta, la richiesta di intervento dei caschi blu viene da un governo la cui legittimità non è contestata – gli stessi manifestanti si sono limitati a chiedere l’allontanamento di Nazarbayev, che mantiene un controllo sulla politica interna, e non del presidente attuale. È questo che fa la differenza coi fatti del 2010 a Bichkek, quando il presidente kirghiso ad interim, Roza Otunbayeva, tentò di fare appello all’OTSC dopo che il suo predecessore, Kurmanbek Bakiyev, era stato costretto alle dimissioni da manifestazioni popolari.
 
L’insieme del sistema di governo del Kirghizistan era crollato, e questo rendeva assai discutibile un intervento dal punto di vista giuridico. Le basi giuridiche dell’attuale decisione sono anche più solide dei sedicenti « interventi umanitari » occidentali, miranti al rovesciamento di governi internazionalmente riconosciuti, qualsiasi sia la loro reputazione.
 
In futuro, sapremo probabilmente di più sul modo in cui tutto questo è maturato – i processi decisionali in Kazakhstan e in Russia e chi ha suggerito di coinvolgere l’OTSC. Al momento però chiaro che il governo russo ha deciso di anticipare i tempi, senza attendere che la fiammata si trasformasse in incendio. Si tratta di un’evoluzione dell’approccio usato un anno e mezzo fa in Bielorussia, quando è bastato che il presidente Vladimir Putin avvertisse che le forze russe erano pronte a intervenire se l’aggravarsi della situazione interna lo avesse reso necessario. Stavolta Mosca ha saltato gli avvertimenti ed è passata direttamente all’azione, pensando probabilmente che il governo kazako non era in grado di resistere da solo.
 
Ma le linee di demarcazione non debbono svanire del tutto. La questione importante adesso è capire se il dispiegamento delle forze di mantenimento della pace dell’OTSC significherà o meno la fine della rivalità tra certi clan del Kazakhstan, manifestatasi in occasione della « transizione del potere », e condurrà invece a un consolidamento del potere (e in quale mani). Mosca ha tutte le possibilità di trarne vantaggi, perché oramai ha una presenza militare in questo Stato, centrale nella sua politica di garante, e le sue azioni potrebbero determinare lo sviluppo della situazione. È qualcosa di simile a quanto accaduto in Armenia dopo la guerra del 2020. Si tratta solo di una soluzione temporanea, ma offre una serie di opportunità per il prossimo futuro.
 
Molti analisti raccomandano vivamente alla Russia di seguire l’esempio degli Stati Uniti e della UE, dialogando con « tutte le parti in campo », tranquillizzando l’opposizione e promuovendo un equilibrio di forze favorevole a Mosca negli Stati chiave, ma essi non tengono conto del fatto che ogni cultura politica ha i suoi punti di forza e le sue debolezze. Mosca in realtà non saprebbe come farlo – non l’ha mai fatto – e quando ha tentato, non c’è mai riuscita. La cosa migliore per la Russia sarebbe di disporre di una protezione militare sul posto, che gli eviterebbe di dover gestire la complessità della vita politica locale. In altri termini, chiunque sarà il vincitore, dovrà comunque muoversi tenendo conto della presenza militare russa e mai dimenticarsi che c’è un partner tradizionale che è la Russia.
 
Da circa quattro o cinque anni, quel che chiamiamo spazio post-sovietico è entrato in una fase cruciale nella quale questi Stati hanno dovuto dimostrare di essere degli Stati sovrani pienamente efficienti. Nel 1991, vennero riconosciuto tali solo perché L’URSS era crollata, non per altre ragioni. Mentre ciascuno ha acquisito la sua propria forma di maturità, il contesto generale è dovunque uguale, con un interesse significativo da parte della Russia e dell’Occidente, e di altri attori regionali, ma con sfumature diverse. Gli attori esteri che si disputano lo spazio post-sovietico sono diventati un fattore di destabilizzazione, ma hanno conferito agli eventi una certa logica e li hanno inseriti in più ampi processi internazionali.
 
Però, a un certo momento, i grandi attori politici si sono disinteressati a quanto accadeva nei « nuovi Stati indipendenti », come venivano chiamati negli anni 1990. Le potenze internazionali si sono piuttosto concentrate sui loro problemi, la cui lista non cessa di allungarsi. Non si sono mai davvero dimenticati degli ex Stati sovietici, ma hanno cominciato a dedicare loro molto meno tempo e risorse. Lo stesso discorso vale per la Russia, anche se essa ha un ruolo del tutto speciale in questa regione, e cerca di trovare forme di influenza ottimali in un contesto di riduzione della sua sfera di interessi.
 
Il paesaggio politico degli ex Stati sovietici è stato dunque plasmato da dinamiche interne che riflettono le interazioni tra i diversi attori coinvolti, la cultura politica locale e la struttura sociale.
 
C’è anche il fatto che nello spazio post-sovietico sta entrando in politica una nuova generazione che, in certi casi, cerca di sfidare i leader più anziani.
 
Sono cambiamenti che non dipendono da influenza esterne. Gli attori esteri devono reagire, intervenire o minacciare di intervenire, come hanno fatto in Bielorussia, adattarsi e fare in modo che la situazione evolva in loro favore, ma il risultato finale dipende dalla maturità e dall’efficacia dei nuovi sistemi politici e sociali di un paese, piuttosto che dai padrini stranieri.
 
È una prova del nove, e non tutti i paesi la supereranno. Il caso dell’Armenia dimostra che le conseguenze per una nazione possono essere terribili (e non è finita), anche se l’idea dominante era che, nonostante i problemi, il paese aveva un’identità forte e poteva mobilitare le proprie risorse con successo e sopravvivere di fronte ad un avversario tradizionale. Il Kazakhstan potrebbe anch’esso rivelarsi un esempio del modo in cui una facciata di successo coltivata a lungo nasconda in realtà nodi di grande problematicità e complessità. E certamente non sarà l’ultimo.
 
Questa è la prima volta che la Russia ricorre ad un’istituzione posta sotto il suo controllo per raggiungere i propri obiettivi politici. Fino ad oggi, queste strutture sembravano puramente ornamentali. È chiaro che le forze di mantenimento della pace dell’OTSC dispiegate in Kazakhstan saranno principalmente costituite da truppe russe. Per prima cosa, ciò garantisce una risposta efficace. Poi, se il Kazakhstan può accettare la presenza di forze russe sul suo territorio, non se ne parlerebbe proprio in caso di forze armene o, diciamo, kirghise. Ciononostante, il ricorso alla coalizione offre a Mosca molte più opzioni e fornisce ragioni che giustificano l’esistenza di questa alleanza. Il futuro ci dirà se altri Stati membri dell’OTSC si troveranno in situazioni simili a quelle del Kazakhstan, ma un precedente è stato creato.
 
Coi colloqui russo-statunitensi sulle questioni di sicurezza che si approssimano, questa situazione viene a proposito per ricordare che Mosca può assumere iniziative militari e politiche rapide e poco ortodosse per influenzare gli eventi nella propria sfera di interessi. Più importante è l’iniziativa, più le responsabilità che si assumono sono grandi, ovviamente, compresa quella per quanto accadrà in quei paesi dove i problemi sono tutt’altro che risolti. Naturalmente Mosca dovrà comunque affrontare qualsiasi ricaduta di questi problemi, ed è più facile farlo in modo proattivo e avendo a disposizione una varietà di strumenti a portata di mano.
 
Ciò che è chiaro è che il fatto di definire i manifestanti come « terroristi » stranieri ha consentito al governo kazako di ottenere forti aiuti all’estero, e che questo ha spinto il conflitto sulla scena internazionale. Ancora non è chiaro quali conseguenze tutto questo potrà avere per lo spazio post-sovietico, e anche per il mondo.

 

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