www.mahsanmilim.com -  7 marzo 2011


Come reclutare gli informatori palestinesi?
di Aya Kaniuk e Tamar Goldschidt


Hai bisogno di un permesso per andare ad Amman a curare il cancro? Nessun problema, lavora per noi e lo avrai. Vuoi andare a studiare in Egitto? Andare al capezzale di tua sorella morente in Arabia Saudita? Uscire di prigione? Non essere più picchiato? Fare un solo anno di prigione al posto di dieci? Avere il diritto di andare a vivere con la tua famiglia in Israele? Vuoi vivere coi tuoi figli? Essere curato nel solo centro in cui ti si può salvare la vita? Mantenere la tua carta di identità magnetica? Il permesso di lavoro? Nessun problema! Aiutaci e noi ti aiuteremo.

E continua così all’infinito; in ogni angolo e angolino, Israele si abbandona al suo crimine più sinistro e nascosto. Il reclutamento dei collaboratori. Tutti i Palestinesi sono nella lista nera, tutti sono colpevoli, salvo che accettino di dire “sì” al “capitano”. Sono sulla lista nera qualsiasi cosa abbiano o non abbiano fatto, essi non hanno diritto a niente in modo da dover sempre comprare i diritti che pure spetterebbero loro per natura. A un prezzo alto, a prezzo del tradimento.

Vuoi accompagnare tuo figlio malato all’ospedale Hadassah? Nessun problema, dice il “capitano” che di fatto è un ufficiale della Shabak (I servizi segreti/di sicurezza). E’ sufficiente dire: “Accetto di dirvi chi getta le pietre nel mio villaggio, chi ha ricostruito la sua casa dopo che era stata demolita, vi darò tutti i nomi che volete, che siano colpevoli o meno, cinque o dieci, quanti ne volete” e allora potrai accompagnare tuo figlio all’ospedale e farlo curare. E avere i soldi per compragli da mangiare, e fare la tripla vaccinazione.
Non hai detto niente? Allora ciao, sei tu che l’hai deciso.

E il bambino? Che cosa si può fare per lui?

Spetta a te salvarlo. Aiutaci e noi ti aiuteremo.

Il diritto di vivere, il diritto di lavorare, di essere curati, di ricevere un’educazione – non sono cose che vengono da sé sotto l’occupazione israeliana. Sono condizionati. Sono prodotti di scambio. Tutto si negozia. Tu puoi scegliere di non essere ferito, di non vedere la tua casa demolita, di avere il diritto di studiare, di lavorare, di ricevere cure mediche perfino all’interno di Israele. Basta dire una parolina: “sì”. Sì accetto di lavorare per voi.

Ed è così che dietro i checkpoint che sono smontati e rimontati, smontati e rimontati, dietro le strade riservate solo agli ebrei, dietro i furti di terra istituzionalizzati, le uccisioni alla cieca, la fame istituzionalizzata, l’umiliazione, la pulizia etnica perpetrate alla luce del sole, c’è anche una bomba raffinata che è pronta a distruggere il popolo palestinese. E’ una bomba invisibile. Il suo impatto è sconosciuto. E non se ne parlerà mai, o quasi mai. Perché quelli che dicono “sì” alle forze di occupazione non lo confesseranno mai. Nessuno lo saprà. Non sarà repertato. E questa bomba – il reclutamento di collaboratori – è attivata nell’ambito che dovrebbe essere precipuamente protetto anche sotto l’occupazione: nello spazio civile. Quello spazio che Israele, secondo le convenzioni che ha firmato, si suppone debba proteggere. Quegli stessi bisogni civili che una popolazione anche sotto occupazione ha diritto di soddisfare. E che, stando alle dichiarazioni ufficiali di Israele, sarebbero soddisfatti.

Là, nell’amministrazione civile, si trova questa terribile bomba. Là dove tutti i bisogni si intrecciano. E’ là che la vera occupazione è all’opera. Là si trovano i veri checkpoint che non fanno che crescere col tempo. Là il vero muro si estende e si approfondisce. Là le tenebre glaciali e ciniche che non hanno limiti e i cui emissari sono gli agenti del Shabak: “Capitano Zakai” o “Moussa” o “Tomer”, tutti hanno nomi falsi ovviamente. Sconosciuti o conosciuti sotto nomi falsi, attendono tutte le richieste dei civili per rifiutarle o dettare condizioni. Con voce melliflua, offrendo una tazza di caffè, una sigaretta, pronunciano, con estrema cortesia, le parole mostruose: Nessun problema, basta che lavori per noi.

E se la risposta è “no”, il Palestinese morente tornerà a morire a casa sua, o non andrà a trovare sua sorella morente, o non andrà a studiare o a lavorare né a vedere i suoi figli. Oppure dirà “sì”, lavorerò per voi e così avrò un permesso di lavoro e il diritto di fare una chemioterapia nella Cisgiordania occupata perché qui semplicemente non ci sono infrastrutture adeguate perché Israele le vieta, e quindi posso morire. Perché dietro il “sì” v’è la percezione enorme e profonda del non ritorno. Non è l’inizio, ma la fine. Ciò che lo attende è la morte, l’ostracismo, la maledizione e i rimorsi. Tutto ciò lo sanno quando cominciano, ma qualche volta se ne dimenticano in un momento di disperazione e di debolezza, tutti questi buoni Palestinesi che rispondono “sì” a una domanda alla quale è difficile dire no.

E per questo crimine, questo crimine invisibile, silenzioso e diabolico, che consiste nel costringere delle persone normali e bene intenzionate ad attraversare il punto di non ritorno tradendo il proprio popolo, Israele porterà eternamente il sigillo d’infamia.

Noi abbiamo raccolto molti racconti di Palestinesi che hanno detto “no” ai capitani dello Shabak e pagato un caro prezzo. Muawiya ha detto “no” e ha perso il lavoro. Eyad ha detto “no” ed è stato diviso dai suoi figli. Faisal, per dire “no”, è stato sul punto di suicidarsi.

La loro storia è la storia dell’occupazione, da quando è cominciata fino ad oggi.



Nota:
il sito Mahsanmilim, creato da ebrei israeliani, si è dato come compito di raccogliere testimonianze, articoli, video, film e racconti sull’occupazione israeliana, per dare una voce alle vittime palestinesi imbavagliate e ignorate. Per saperne di più:
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