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Orient XXI, 26 febbraio 2015 (trad. ossin)


Netanyahu mette a rischio la “speciale relazione” tra USA e Israele?

Sylvain Cypel


La decisione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di parlare davanti al Congresso statunitense, il 3 marzo prossimo, senza essere stato invitato dalla Casa Bianca, mira a mettere in guardia l’opinione pubblica statunitense contro ciò che egli denuncia come un pericolo di “cattivo accordo” con l’Iran sul nucleare. Il primo ministro israeliano non esita, per fare ciò, a giocare la carta dei repubblicani contro i democratici, col rischio di compromettere il sostegno storicamente consensuale degli Stati Uniti verso Israele

Benjamin Netanyahu dovrebbe, salvo ripensamenti dell’ultimo minuto, parlare davanti al Congresso USA, il 3 marzo, per mettere in guardia l’opinione pubblica statunitense contro un “cattivo accordo” con Teheran sul futuro del nucleare iraniano, il cui negoziato dovrebbe essere ultimato entro il 31 marzo. E’ l’ambasciatore israeliano a Washington, Ron Derner (un ex cittadino statunitense, notoriamente neoconservatore), che ha organizzato questo intervento insieme al capo dei repubblicani alla Camera, John Boehner, senza informarne la Casa Bianca – violando tutte le consuetudini diplomatiche – e anche, in larga parte, senza coordinarsi con l’Aipac, L’American Israel Public Affairs Committee, la lobby filo israeliana ufficiale di Washington, molti esponenti della quale si erano mostrati ostili all’iniziativa. Già il vice presidente Joe Bilden, che per dettato costituzionale è il  presidente del Senato, “ha marcato visita”. Sarà ufficialmente “in viaggio”. Un paio di dozzine di eletti democratici saranno assenti. E Barack Obama, che aspira vivamente a concludere con Teheran, si infuria.


Un accordo paragonato a quello di Monaco

L’annuncio di questo intervento suscita un dibattito in Israele e, più ancora, nella classe politica statunitense e nella comunità ebraica negli Stati Uniti. Ephraim Halevy, un ex capo del Mossad, il servizio di spionaggio esterno israeliano, ha stigmatizzato questo discorso come un “errore”, perché colloca Israele al centro dello scontro politico interno. E ha respinto l’idea che un Iran nuclearizzato costituirebbe una “minaccia per la sopravvivenza” di Israele, come Netanyahu continua a sostenere. “Stiamo diventando scemi o cosa?”, si chiede il commentatore politico Yoel Marcus sul quotidiano israeliano Haaretz. “Netanyahu gioca col fuoco”, scrive su The Nation un ex membro dell’Aipac, attualmente vicino alla lobby statunitense filo israeliana di sinistra J Street.

Il 18 febbraio, un portavoce della Casa Bianca ha denunciato la “pratica costante” di Israele che consiste nel divulgare informazioni sul negoziato con l’Iran, estrapolate dal loro contesto. Un caso recente ha indispettito gli Statunitensi, quando l’emittente israeliana Channel 10 ha indicato in 6500 le centrifughe che l’Iran potrebbe continuare a tenere in funzione, in caso di accordo, informazione che solo le più alte autorità israeliane avrebbero potuto fornirle. La Casa Bianca ha denunciato che si trattava di una notizia “a metà”. L’amministrazione statunitense non nasconde più la mancanza di fiducia nell’alleato, al punto di avere smesso di informarlo sui dettagli del negoziato con Teheran.

Al momento, la questione che si pone a Israele è la seguente: cosa sarebbe più grave, la nascita di un nuovo Stato nuclearizzato ma dalle capacità assai ridotte rispetto alle sue e posto sotto il controllo internazionale, o perdere l’appoggio della prima potenza mondiale che, da cinquanta anni, non gli ha mai fatto mancare il suo aiuto nei momenti cruciali? Netanyahu ha fatto la sua scelta. Egli denuncia un accordo “come quello di Monaco”, una capitolazione statunitense di fronte a Teheran. In realtà il primo ministro israeliano è contrario a qualsiasi accordo, che non sia la rinuncia pura e semplice da parte di Teheran ad ogni attività nucleare.  E’ questo il maggiore ostacolo. Secondo gli Stati Uniti, impedire all’Iran l’accesso alla capacità nucleare è oramai impossibile, e uno scontro militare con la Repubblica islamica sarebbe controproducente, addirittura pericoloso. Resta solo l’opzione del migliore accordo possibile.


Il nucleare iraniano alla luce del sole

Quali obiettivi tangibili si propone quindi Netanyahu con il suo intervento al Congresso? Prima di tutto, mobilitando l’opposizione repubblicana, fare di tutto per impedire la firma di un accordo che sminuirebbe, ai suoi occhi, la posizione israeliana in Medio Oriente, facendo apparire l’Iran come il vincitore di un braccio di ferro durato più di venti anni con gli Occidentali (un punto di vista che non trova d’accordo noti settori dell’establishment della sicurezza israeliana). Ma soprattutto si preoccupa delle conseguenze più a lungo termine su Israele dell’accordo Iran-USA. Fino ad oggi, lo Stato israeliano, che disporrebbe di 100 o 200 testate nucleari, ha mantenuto uno stretto riserbo sulla propria capacità nucleare, anche se la cosa non  costituisce più un segreto per nessuno. Un riserbo che gli ha consentito di sottrarsi alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’energia atomica (AIEA). Finché perdura il conflitto con Teheran, Tel Aviv è preservata dalla curiosità della comunità internazionale sul proprio arsenale. Un accordo USA-Iran, temono gli Israeliani, potrebbe attirare l’attenzione sul loro paese, oramai il solo nella regione a non avere ratificato il Trattato di non-proliferazione nucleare (TNP) e che potrebbe diventare l’obiettivo di una campagna internazionale su questa questione.

La crisi attuale tra Washington e Tel Aviv è la più grave da molto tempo. Secondo un sondaggio CNN-ORC International, i 2/3 degli Statunitensi disapprovano l’intervento di Netanyahu al Congresso (il 52% dei repubblicani sono favorevoli, contro il solo 14% dei democratici). Secondo tutti coloro che in Israele criticano il comportamento del primo ministro, è lì il rischio maggiore. In quanto, a parte una frangia molto di destra e molto attiva, gli ebrei statunitensi hanno votato per il 72% a favore di Obama nel 2012 e restano in gran parte democratici. Schierando Israele con il partito democratico, Netanyahu non rischia di alienarsi il consenso di una gran parte dell’ebraismo statunitense, l’unico al mondo a disporre di una potente organizzazione comunitaria realmente indipendente da Israele?


Dal consenso ad un obiettivo di parte

E’ Dennis Ross, un importante ex diplomatico vicino all’Aipac, che è stato inviato speciale in Medio oriente sia di Bush padre che di Clinton, a esprimere al meglio le perplessità della comunità ebraica statunitense rispetto al discorso di Netanyahu al Congresso. “Saremo tutti dispiaciuti quel giorno”, ha dichiarato il 16 febbraio. La ragione: prima di tutto, Netanyahu trasforma l’appoggio a Israele da tema consensuale negli Stati Uniti in questione di parte. Una catastrofe, tanto più che la società statunitense, spiega, registra una crescita di influenza di nuove comunità – afro-americana, asiatica e ispanica – “che in venti anni diventeranno maggioranza”. Come gli ebrei, queste comunità sono in maggioranza democratiche. Ma esse “non hanno gli stessi legami storici con Israele”. Sottinteso: non gli stessi della vecchia società bianca dominante. Egli teme che, perdendo l’appoggio dei democratici, Israele la pagherebbe cara in futuro. Perché – ha aggiunto – recenti avvenimenti hanno suscitato sospetti circa il suo futuro. Ross ha citato la proposta di legge di Netanyahu a proposito dello “Stato-nazione ebraico”, che ha messo in allarme molti democratici, secondo i quali “è la democrazia uno degli elementi centrali che legano Israele agli Stati Uniti”. Pronunciandosi per uno Stato etnico in Israele, schierandosi con le frange più di destra del panorama politico statunitense, Israele – grida – rischia di alienarsi non solo la simpatia della comunità ebraica, ma a termine anche del suo indefettibile sostegno internazionale: la società e la classe politica statunitense.

Sionista poi diventato assai critico della politica israeliana, l’intellettuale statunitense Peter Beinart suona anch’egli l’allarme: i sostenitori storici di Israele, l’Aipac e le grandi organizzazioni ebraiche statunitensi – molte delle quali hanno mostrato la loro contrarietà per il modo in cui ha sfidato il presidente Obama – sono le prime vittime di Netanyahu. Di fatto, scrive Beinart, Netanyahu “distrugge il vecchio establishment ebraico statunitense, per costruirne un altro”. Un nuovo establishment finanziato dal magnate dei Casinò di Las Vegas e di Macao, Sheldon Adelson, e che si appoggia alla frangia più di destra del paese: il Tea Party, gli ideologi neo conservatori e le lobby evangeliste. Questo movimento si accompagna, descrive Beinart, a un movimento di segno inverso, che vede la gioventù ebraica statunitense prendere sempre di più le distanze da Israele e dalla sua politica verso i Palestinesi. Tra gli Statunitensi ebrei che hanno votato Obama nel 2012, i tre quarti tra quelli che hanno meno di 50 anni ritengono che gli Stati Uniti dovrebbero restare “neutrali” nel conflitto israelo-palestinese. Agendo come agisce, Netanyahu sta segando il ramo su cui Israele sta seduto.

In quasi 70 anni, questa non è la prima volta che Washington e Tel Aviv si scontrano. Sono noti i conflitti maturati dopo alcuni episodi di guerra, quando la presidenza USA ha imposto agli Israeliani – sempre reticenti ma che, alla fine, si sono sempre uniformati – ritiri territoriali (dal Sinai nel 1948 e poi nel 1957, dall’Egitto nel 1973, da Beirut nel 1982 dopo il massacro dei Palestinesi a Sabra e Chatila). Altre forti tensioni vi sono state, per esempio nel 1990, quando il primo ministro israeliano Yitzhak Shamir rifiutò di partecipare alla conferenza internazionale di Madrid, promossa dagli USA e alla quale, per la prima volta, era presente una delegazione della Palestina. Anche in questa occasione la minaccia di pressioni (essenzialmente finanziarie, ma anche militari) convinsero Israele. Nel 1998, durante i negoziati di Wye River, tra Bill Clinton, Benjamin Netanyahu e Yasser Arafat, i rapporti tra il presidente USA e quello israeliano erano glaciali.


Erosione del sostegno dell’amministrazione USA       

Ma mai, fino ad oggi, un primo ministro israeliano aveva tentato di utilizzare pubblicamente le strutture dell’apparato politico statunitense per rovesciare un corso delle cose che non approvava. In una lettera rimasta celebre indirizzata al presidente dell’American Jewish Community, del 23 agosto 1950, David Ben Gurion, il fondatore di Israele, scriveva: “Gli ebrei degli Stati Uniti, come comunità e come individui, hanno un solo obbligo di fedeltà, quello verso gli stati Uniti (…) Lo Stato di Israele rappresenta e parla solo a nome dei propri cittadini, e non intende in alcun modo rappresentare o parlare a nome di ebrei che siano cittadini di altri paesi”. Tentando di trasformare Israele nello “Stato-Nazione del popolo ebraico”, dicendo di recarsi al Congresso per tenere un discorso “a nome del popolo ebraico”, Netanyahu, scrive M.J. Rosenberg, l’ex attivista democratico dell’Aipac, “rischia di incrinare tutto l’edificio costruito dal 1950” per garantire il sostegno dell’amministrazione USA, di qualsiasi colore, a Israele e alla sua politica.

E’ poco probabile che la crisi israelo-statunitense si aggravi radicalmente in un avvenire prossimo, anche se l’annuncio di un accordo tra gli Occidentali e gli Iraniani potrebbe accrescere la tensione. Una freddezza di rapporti – lo erano già diventati dopo il fallimento della “missione di pace” di John Kerry nell’inverno 2014 – si manterrà fino alla prossima scadenza elettorale delle presidenziali USA nel novembre 2016, ma nulla di più, tanto la “speciale relazione” statunitense-israeliana si fonda su legami profondi (1). E tuttavia non si può escludere una lenta erosione che, a termine, renda più fragile la posizione israeliana a Washington. Qualcuno già si preoccupa, negli Stati Uniti, della possibilità che Israele lanci una nuova guerra contro Hezbollah in Libano, se Benjamin Netanyahu vincerà le elezioni del 17 marzo e se i negoziatori internazionali riusciranno a fissare i termini di un accordo con l’Iran per fine marzo.

(1)    Israele non è l’unico governo filo-occidentale nella regione, ma è l’unico paese la cui popolazione è in sintonia con il punto di vista occidentale sul Medio Oriente