Stampa



Lo “Stato ebraico” e razzista di Netanyahu


Il progetto di legge di Netanyahu prevede di non definire più Israele come uno “Stato ebraico e democratico”, ma come “lo Stato nazionale del popolo ebraico”, nelle Leggi fondamentali che sostituiscono la Costituzione (che in Israele non esiste).

Il testo è stato approvato domenica 23 novembre 2014 dal governo, nel corso di un acceso dibattito, e avrebbe dovuto essere discusso in Parlamento (che nel frattempo è stato sciolto dopo la cacciata dal governo di Yair Lapid e di Tzipi Livni). “L’obiettivo di questa legge è di assicurare il futuro del popolo ebraico sulla sua terra”, ha assicurato Netanyahu, criticando coloro che “dall’interno vogliono rimettere in discussione il diritto nazionale del popolo ebraico su questa terra”.

Martedì Rivlin, uscito dal partito Likud (destra nazionalista) di Netanyahu, ha dichiarato di non “capire la necessità di questa legge”. “Esaltare il carattere ebraico dello Stato di Israele a detrimento del suo carattere democratico rimette in discussione i principi della Dichiarazione di Indipendenza che affermava essere, quello ebraico e quello democratico, valori della stessa importanza”.

In realtà non molto è destinato a cambiare in peggio per i Palestinesi di Israele, già abbondantemente discriminati dalle leggi attuali. In definitiva, con questo progetto, Israele getta la maschera di fronte al mondo intero, riconoscendo di essere quello che è: uno Stato razzista


In verde, le terre progressivamente sottratte ai Palestinesi


Info-palestine.net, 30 novembre 2014 (trad.ossin)


Noi non abbiamo niente a che vedere con questa storia di uno “Stato esclusivamente ebraico”

Waad Ghantous (*)


Il progetto di legge, che deve ancora essere approvato dal Parlamento israeliano, la Knesset, definis
ce Israele come “Stato-nazione per il popolo ebraico” e consacra i principi sionisti, secondo cui lo Stato è stato fondato, più di sei decenni fa, a scapito di tutti i Palestinesi.

I suoi sostenitori pretendono che questa legge protegga “i diritti personali di tutti i cittadini (dello Stato)”, omettendo di dire che essa garantisce “diritti collettivi” solo agli ebrei che, indipendentemente dalle loro origini ancestrali, sono stati sempre autorizzati a immigrare in Israele e ad ottenerne la cittadinanza.

Nell’ambito del consiglio dei ministri di Netanyahu, il progetto di legge è stato adottato con 14 voti favorevoli e 6 contrari e avrebbe suscitato un dibattito appassionato.  Come sempre, questo dibattito non ha riguardato i diritti dei cittadini palestinesi di Israele, che rappresentano il 20% della popolazione totale, ma si è incentrato sulla dichiarazione di indipendenza dello Stato e l’ideologia fondatrice del sionismo.

Per gli 1,7 milioni di Palestinesi che sono stati costretti a prendere la cittadinanza israeliana e che continuano a vivere in quei luoghi che, dopo la Nakba (la “catastrofe”, la cacciata dei Palestinesi dalla loro terra nel 1948), si chiamano adesso Israele, questo progetto di legge altro non è se non il fatto che Israele getta finalmente la maschera dinanzi al mondo intero.

Indipendentemente dal dibattito suscitato, questo progetto non porta alcuna vera novità: già adesso, nonostante la nostra cittadinanza nominale, siamo stati sempre trattati da cittadini di seconda categoria cui sono accordati diritti limitati, per l’unica ragione che non siamo nati ebrei.


La discriminazione fin dal primo giorno

Se l’ultima proposta di Netanyahu sarà adottata, essa non apporterà alcuna novità per i Palestinesi dovunque si trovino – nell’attuale Israele, nei territori palestinesi occupati o nella Diaspora, o tra i milioni di rifugiati che attendono di ritornare nelle terre da cui sono stati violentemente espulsi nel 1948.

Per quelli tra noi che vivono nell’attuale Israele, la legge ha un valore puramente formale perché esistono già decine di leggi che “impongono la discriminazione contro i cittadini palestinesi di Israele in tutti i campi, ivi compreso il loro diritto di partecipare alla vita politica, l’accesso alle terre, all’educazione, alle risorse finanziarie dello Stato e nelle procedure penali”, come spiega Adalah, l’organizzazione di difesa dei nostri diritti.

Non era già evidente che i Palestinesi di Israele vivono sotto la stessa occupazione dei Palestinesi di Cisgiordania – ivi compresa Gerusalemme – e di quelli che sono imprigionati nella striscia di Gaza? Israele ci tratta come una “minaccia demografica”, pur vantando di fronte al mondo il fatto di averci concesso la cittadinanza, come un’asserita prova del suo carattere democratico, ma volendo nello stesso tempo limitare la nostra presenza e la nostra influenza nella società.

Dopo la dichiarazione di indipendenza dello Stato sionista, il primo ministro David Ben Gurion, costernato dal numero di Palestinesi che erano riusciti a restare sulle loro terre ancestrali, ha deplorato il fatto che Israele non fosse in grado di “ripulire senza una nuova guerra l’intera regione centrale della Galilea” dai 100.000 residenti palestinesi autoctoni.

Ma i dirigenti israeliani hanno effettivamente tentato di farlo, anche in tempo di pace. Nel corso degli ultimi anni, il piano di demolizione del villaggio di Ramiyya in Galilea, con l’espulsione dei suoi abitanti, è stato un tentativo di trasformare il sogno di Ben Gurion in realtà. Come ha detto il professore Hilel Cohen, dell’Università ebraica: “Il progetto di giudaizzazione della Galilea è cominciato nel momento in cui lo Stato (di Israele) è stato fondato, ed è proseguito sotto diverse forme fino ai giorni nostri”.

Nella regione del Neguev, i Beduini palestinesi di nazionalità israeliana hanno subito la demolizione delle loro case e si sono visti rifiutare i servizi di base come l’acqua, l’elettricità e l’educazione. Si stima che 53.000 uomini, donne e bambini, che vivono in più di 40 villaggi “non riconosciuti” in questa regione, saranno oggetto di una imminente espulsione.

Al-Araqib, per esempio, è stata rasa al suolo dai bulldozer israeliani 78 volte dal luglio 2010. Ma i suoi abitanti rifiutano di andarsene, ritornano e ogni volta ricostruiscono il loro villaggio. Non è già sufficientemente chiaro per loro che i dirigenti di Israele ci hanno sempre considerato come cittadini di seconda classe fin dal primo giorno? E come potrebbe il progetto di legge sullo “Stato nazione” esclusivamente ebraico, largamente privo di contenuti pratici, rendere la loro vita quotidiana ancora più difficile?

L’opposizione alla legge da parte dei cosiddetti “centristi” e “liberali” in Israele, come il ministro delle finanze Yair Lapid e il ministro della giustizia Tzipi Livni evidenzia come, per l’ennesima volta, l’establishment politico israeliano discuta in sostanza solo di come controllare il nostro futuro, senza che noi possiamo dire alcuna parola in proposito.


Un'idea fallimentare

Ciononostante, i partiti politici palestinesi in Israele continuano ad avere i loro deputati alla Knesset. Apparentemente convinti di poter avere voce in capitolo in Parlamento, essi continuano a lottare per ottenere i nostri voti e ci esortano a sostenerli in ogni campagna elettorale.

Ma questo progetto si è rivelato un fallimento. Benché noi abbiamo loro fornito l’opportunità di far parte della Knesset, essi non sono riusciti ad ottenere alcun miglioramento della nostra vita quotidiana. Il flusso di leggi razziste non è rallentato, l’incitamento all’odio da parte dei politici israeliani è progressivamente cresciuto e la nostra capacità di organizzarci come forza politica unita è stata ostacolata dalle divisioni interne e la concorrenza tra partiti politici arabi.

Il deputato palestinese Hanin Zoabi è stato recentemente espulso dalla Knesset per un periodo di sei mesi, per avere osservato che i Palestinesi che avevano catturato e poi ucciso tre coloni israeliani l’estate scorsa non sono dei “terroristi”.

Ora Netanyahu e le sue coorti di fascisti arrabbiati propugnano un nuovo progetto di legge per espellere i membri della Knesset “che in tempo di guerra o durante un’azione militare contro uno Stato nemico o un’organizzazione terrorista, manifestino un sostegno pubblico alla lotta armata”. Questo progetto di legge è stato assai opportunamente battezzato dai suoi proponenti come “il progetto di legge Hanin Zoabi”.

La pretesa di Israele di non essere considerata come uno Stato di apartheid si è sempre fondata sul fatto che i cittadini palestinesi di Israele hanno diritto di voto e di essere votati alla Knesset. C’è bisogno di altre prove per capire che, fin dall’inizio, si è trattato solo di un diritto di facciata?

Con una legge che dichiara in un sol colpo che questo Stato esiste solo per il popolo ebraico, è giunto oramai il momento che i Palestinesi di Israele abbandonino l’idea di prendere parte a questo teatro dell’assurdo, secondo cui la partecipazione al processo politico israeliano permetterebbe di migliorare le nostre vite e di fare avanzare la nostra causa.

E’ tempo di assumere iniziative per superare le nostre divisioni politiche e rafforzare le relazioni coi nostri compatrioti nei territori palestinesi occupati e nella Diaspora, per costruire una lotta comune capace di sfidare seriamente quest’ultimo Stato coloniale del mondo contemporaneo.


(*) Waad Ghantous è palestinese e vive ad Haifa. Milita nell’organizzazione Al-Awda, che difende il diritto al ritorno per i Palestinesi cacciati dalla Palestina storica nel 1948