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ProfileCrisi siriana, 15 otobre 2019 - La situazione attuale dovrebbe persistere ed è assai probabile che il filo spinato che corre lungo la frontiera turco-siriana venga arretrato 30 chilometri più a sud (nella foto, unità turche avanzano in teritorio siriano)   

 

 
Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), ottobre 2019 (trad. ossin)
 
Turchia/Siria : Che cosa succede
Alain Rodier
 
L’operazione «Primavera di pace», avviata il 9 ottobre dalla Turchia lungo la sua frontiera con la Siria a est dell’Eufrate, ha provocato le forti critiche della Comunità internazionale, sebbene con toni diversi e per ragioni varie. Domenica 13 ottobre, le carte sono state redistribuite col ritiro di gran parte delle Forze speciali USA presenti sulla frontiera turca e l’accordo concluso tra i Curdi e Damasco per porre la zona a est dell’Eufrate sotto la protezione del governo siriano.
 
Unità turche avanzano in territorio siriano
 
La Turchia occupa già una parte del territorio siriano
 
Prima di tutto, occorre ricordare che non è la prima volta che forze turche, appoggiate da (o servendosi della loro presenza come pretesto) “ribelli” siriani – una coalizione in cui c’è di tutto, da combattenti turcomanni a ex miliziani dell’Esercito siriano libero (FSA) e jihadisti «moderati» -, addestrati e armati da Ankara, occupano unilateralmente parti del territorio siriano.
 
Ad agosto 2016, una prima operazione battezzata «Scudo dell’Eufrate» aveva già permesso ad Ankara di occupare una striscia di una quarantina di chilometri in profondità, da Jarabulus, località situata sull’Eufrate, fino alla provincia di Afrin, posta più a ovest.
 
Questa invasione non aveva all’epoca suscitato alcuna protesta internazionale (le popolazioni coinvolte erano arabe e turcomanne e, in minima parte, curde), che invece si levò in occasione di quella successiva, l’operazione «Ramoscello di ulivo», lanciata a gennaio 2018 per scacciare gli uomini del PYD (Partito dell’Unione democratica siriana[1]). Infatti è stato allora che i Curdi siriani hanno veduto sfumare il loro sogno di istituire uno Stato, il Rojava, che si estendesse dalla frontiera irachena fino alla provincia di Afrin. Ma non essendo i Curdi maggioranza nella provincia di Afrin, in relazione agli Arabi e ai turcomanni, la comunità internazionale ha pudicamente distolto gli occhi, consentendo ad Ankara di procedere ad una pulizia etnica ed espellere i Curdi.
 
L’operazione «Primavera di pace» incontra una modesta resistenza militare da parte delle Forze Democratiche Siriane (FDS) e ciò per diverse ragioni:
 
– la componente araba delle FDS (circa il 30% dei 40 000 combattenti) non vuole assolutamente impegnarsi in scontri con i Turchi, ritenendo che si tratti di una questione che riguarda esclusivamente i Curdi del PYD; deve infatti rilevarsi che le popolazioni arabe che vivono a est dell’Eufrate mal sopportano la presenza di Autorità curde – coperte dalle FDS e protette dagli USA – che pretenderebbero di dettare legge nella loro vita quotidiana;
 
– i Curdi del PYD non hanno la forza necessaria per opporsi seriamente all’avanzata turca, disponendo solo di armi leggere, qualche mortaio e di armi anticarro (le più temibili); soprattutto devono fronteggiare anche gli attacchi degli irregolari di Daesh, impegnati in crescenti azioni di guerriglia lungo la valle dell’Eufrate e la frontiera irachena. D’altronde Bagdad, preoccupata dall’evoluzione della situazione, ha chiuso le frontiere dal 9 ottobre, dall’Eufrate – a sud – fino alla Turchia – a nord..
 
– Sebbene gli USA condannino ufficialmente questa operazione, non fanno nulla – a onta del tenore delle prime dichiarazioni [2] – per interdire lo spazio aereo ai velivoli turchi che si muovono, quindi, in piena libertà. E’ chiaro che la lotta in corso nelle più alte sfere di Washington oscura la politica estera della prima potenza mondiale. Il presidente Trump desidera un disimpegno dei Ragazzi dal Medio Oriente, per collocarsi in buona posizione nella competizione presidenziale dell’anno prossimo; ma il Pentagono non vuole abbandonare i suoi alleati curdi ed ha, allo stesso tempo, aumentato gli effettivi militari presenti in Arabia Saudita per contrastare la «minaccia» iraniana. L’opposizione democratica – cui si aggiunge qualche Repubblicano – si è gettata su queste vicende per danneggiare Trump, attualmente in difficoltà a causa della procedura di impeachment promossa contro di lui.
 
I legami che uniscono il PYD al PKK
 
Ricordiamo che il PYD condivide la stessa ideologia del PKK: l’«apoismo» (dal soprannome del suo capo storico, Abdullah Öcalan, detenuto in Turchia dal 1999). E’ un’abile combinazione di marxismo-leninismo, ecologia, autogestione e anticapitalismo. Una nuova ideologia molto popolare negli ambienti intellettuali europei, e ciò spiega le reazioni virulente quando il presidente Recep Tayyip Erdoğan afferma che il PYD è il cugino germano del PKK, movimento riconosciuto internazionalmente come «terrorista». La risposta di questi intellettuali è che bisogna espungere il PKK da questa lista nera. Dimenticano solo di precisare che il PKK rappresenta solo una parte del popolo curdo, essenzialmente le popolazioni situate a cavallo tra la Turchia e la Siria. Il suo stato maggiore è istallato da anni sulle pendici del monte Qandil, nell’Iraq del nord, in prossimità della frontiera iraniana.
 
Da parte loro, i Curdi iracheni appartengono per lo più a due diversi clan, quello di Barzani – che intrattiene le migliori relazioni con Ankara perché il petrolio che estrae passa per la Turchia – e quello dei Talabani, che sono piuttosto filo iraniani, certo un po’ per forza dal momento che la regione irachena che abitano si trova alla frontiera con l’Iran. Entrambe sono ostili al PKK e, di conseguenza, al PYD siriano. Vi sono ovviamente delle eccezioni, giacché i militanti di base sono costretti a convivere discretamente sul campo. Ultimo punto ma non meno importante: il PYD, come il PKK, non è «democratico», vale a dire che, a onta delle dichiarazioni di intenti e di una propaganda molto ben fatta, il potere è nelle mani di apparatcik, senza che la base possa dire la sua.
 
Le reazioni internazionali 
 
Il presidente Trump, che ha la particolarità di dire tutto e il suo contrario nell’arco di due giorni, ha affermato che gli Stati Uniti avevano tre opzioni per risolvere la crisi: la guerra (contro la Turchia); le sanzioni (contro la Turchia); e negoziati tra Turchi e Curdi. Per fare pressioni su Ankara – ma soprattutto per non scontentare l’opposizione nascente tra i Repubblicani sensibili al «problema curdo» -, il presidente Trump ha autorizzato sanzioni contro la Turchia, senza però metterle in atto per il momento. Il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, ha fatto sapere che gli Stati Uniti potrebbero «neutralizzare» l’economia turca «se necessario». Ha aggiunto: «speriamo di non dovervi ricorrere».
 
Ma, al di là del carattere grottesco e insopportabile di queste dichiarazioni [3], gli Statunitensi sono al momento bloccati a causa della loro importante presenza militare in Turchia, in particolare nella base di Inçirlik, dotata – tra l’altro – di armi nucleari tattiche. Inoltre, la posizione geostrategica di questo paese ne fa un posto di osservazione privilegiato sul Medio Oriente e la Russia. Le stazioni di intercettazione telefonica statunitensi sono molte in questa zona, fin dall’inizio della Guerra Fredda… Usare la mano pesante con Ankara potrebbe indure i Turchi a chiudere queste basi militari statunitensi, come fece il generale de Gaulle con quelle della NATO nel 1966. E’ strategicamente impensabile, ma Trump ha più volte colto gli analisti alla sprovvista!
 
Infatti, il capo del Pentagono, Mark Esper, ha annunciato domenica 13 ottobre il ritiro di 1 000 soldati statunitensi presenti nel nord della Siria «per ordine» di Donald Trump. Ha aggiunto: «le nostre forze potrebbero restare intrappolate tra due eserciti opposti che avanzano, e questa è una situazione insostenibile». Questo è avvenuto dopo l’accordo siglato tra le FDS e Damasco, che dovrebbe consentire all’esercito regolare siriano di schierarsi nel nord per tentare di fermare l’avanzata dei Turchi.
 
Gli Europei – almeno alcuni paesi come la Francia, la Gran Bretagna, la Germania, il Belgio, la Finlandia, i Paesi Bassi e la Polonia – gridano al lupo affermando che l’intervento turco è illegale dal punto di vista del diritto internazionale – cosa che è del tutto vera, non potendosi in questo caso sostenere il principio di autodifesa, perché da anni non vi è mai stato alcun attacco contro la Turchia proveniente dalla Siria [4]. Sono state quindi decise delle sanzioni, consistenti nel fermare o sospendere le esportazioni – o le previste esportazioni – di armi verso la Turchia.
 
Se in passato questo avrebbe potuto essere un deterrente – la Germania colloca regolarmente la Turchia sotto embargo militare – è molto meno vero oggi. Difatti questo paese si è dotato di una forte industria di difesa, diventando perfino un esportatore del quale si può ammirare la tecnologia nei saloni di armamenti IDEF, che si allestiscono ogni due anni. E, per le importazioni, Ankara si rivolge sempre più spesso alla Russia, invece che agli Stati Uniti e all’Europa, cosa che crea veri problemi alla NATO, di cui la Turchia è membro importante.
 
In realtà gli Europei vorrebbero rientrare politicamente in Medio Oriente, ma non sanno come fare, senza contare che la minaccia di aprire le porte dell’Europa ai 3,6 milioni di persone sfollate in Turchia fa davvero paura. Inoltre, la «causa curda» è popolare nell’opinione pubblica. «Bacchettare» Ankara era quindi obbligatorio a fini di politica interna, pur sapendo che questo non avrebbe fatto altro che rafforzare Erdoğan nella sua determinazione e il suo disprezzo, sempre più forte, verso i leader europei considerati come «dispensatori di lezioni» irresponsabili e, soprattutto, del tutto impotenti. In questo il presidente turco può contare sul consenso della maggioranza dei partiti politici turchi, compresi quelli di opposizione, a eccezione delle formazioni filo-curde, i cui leader marciscono in galera. Da notare che il popolo turco, anche se non tutto schierato con Erdoğan, lo appoggia in questa operazione militare, almeno fin quando non registrerà perdite eccessive tra i ranghi dell’esercito, e questo spiega la relativa «lentezza» tattica dell’offensiva. E’ un segno di questo consenso il gesto dei giocatori della squadra nazionale turca – vittoriosa il 12 ottobre contro l’Albania nell’ambito della selezione per l’Euro 2020 – che hanno fatto un saluto militare a sostegno dell’esercito del loro paese, cosa che non è piaciuta ai dirigenti della UEFA che hanno «aperto un’inchiesta».
 
E’ un principio semplice che gli Occidentali non vogliono vedere: più si sanziona un paese – sempre per eccellenti ragioni – più la sua popolazione dimostra una forte resilienza e fa blocco dietro i suoi dirigenti contro ciò che considera una «ingerenza straniera».  
 
Anche Damasco condanna l’intervento turco in linea di principio, perché si tratta di una invasione del suo territorio. Sa bene, però, che avrà difficoltà a impegnarsi su questo fronte, come convenuto con le FDS, perché le sue forze sono impegnate nella lotta contro l’opposizione islamica jihadista a Laodicea, a Idlib, a Palmira e fino a Deir ez-Zor. E’ inoltre probabile che uno scontro diretto con l’esercito turco si volgerebbe in disastro per l’esercito siriano, tanto quest’ultimo si trova in uno stato di inferiorità tecnica e numerica [5].
 
Resta un’incognita: quale sarà la reazione dei Russi e degli Iraniani presenti in zona? Se non vengono direttamente toccati, è possibile che si limiteranno a osservare una certa neutralità, mentre negoziano discretamente dietro le quinte con Turchi, Israeliani ed altri… Per il momento brontolano per darsi un tono, ma niente di più – pur bloccando – per quanto riguarda Mosca e la Cina – sistematicamente le iniziative occidentali all’ONU. Gli Occidentali membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non hanno ancora smesso di dover pagare il loro «imbrogli» in occasione dell’intervento in Libia nel 2011.
 
I paesi arabi alleati di Riyadh e della Lega Araba protestano per parte loro «energicamente», evidenziando i rischi di epurazione etnica e di catastrofe umanitaria; ma non correranno in soccorso dei Curdi. Sono particolarmente preoccupati per la loro stessa sicurezza, constatando che Washington è un «amico falso» capace di lasciarli cadere da un giorno all’altro, come già avvenne per il Sud Vietnam, lo Scià di Persia e, poi, per i leader egiziani e tunisini nel 2011. Soprattutto dopo che Donald Trump ha dichiarato, per giustificare la sua decisione a proposito dei Curdi: «Non erano presenti nel 1944 in Normandia». 
 
Conclusioni
 
La situazione attuale dovrebbe persistere ed è assai probabile che il filo spinato che corre lungo la frontiera turco-siriana venga arretrato 30 chilometri più a sud. Il terreno relativamente poco accidentato è favorevole all’offensiva, quindi a Turchi. Da notare che questi ultimi non hanno ancora fatto intervenire i mezzi pesanti della 2° armata – in particolare i carri da battaglia – schierati nel sud-est della Turchia. A metà ottobre, sono impegnate solo alcune forze speciali ed unità di fanteria leggera (circa 15 000 uomini in parte corazzate) e milizie dell’Esercito Siriano Libero (10 000 attivisti). Tutto questo, verosimilmente, per non irritare troppo Washington ma, in caso di necessità, le cose possono evolvere rapidamente. Se le cose andranno secondo le previsioni di Ankara, la Turchia installerà in questo corridoio di sicurezza diversi immensi campi profughi, che dovranno ospitare da uno a due milioni di Siriani (I 3,6 milioni di cui si parlava non sono tutti Siriani). La comunità internazionale sarà invitata a contribuire al loro finanziamento, se non vuole vederseli arrivare a casa, soprattutto in Europa occidentale. Le popolazioni curde saranno costrette a emigrare più a sud, o nell’Iraq del nord. Non va dimenticato che il principale obiettivo di Ankara è quello di tagliare i «suoi Curdi» dalle loro retrovie siriane.
 
 
Note:
 
[1] Il cui braccio armato è costituito dalle YPG (Unità di protezione del popolo) e dalle unità femminili, le YPJ.
 
[2] Certamente l’US Air Force non comunicherà più ai suoi omologhi turchi le informazioni in suo possesso e non coordinerà più i voli effettuati nei cieli della Siria. In realtà, gli aerei statunitensi evitano oramai la zona per non rischiare spiacevoli incidenti.
 
[3] L’esempio migliore resta quello delle «sanzioni massime» imposte all’Iran. Non riescono a produrre altro risultato se non quelli di unire il popolo persiano, non tanto dietro i mullah, ma contro l’imperialismo statunitense.
 
[4] Per la Francia e la Gran Bretagna, questo significa dimenticare troppo presto che anche l’intervento delle loro forze speciali (al fianco degli USA) è altrettanto illegale. Esso non è stato disposto dall’ONU, né richiesto da un paese membro di questa venerabile istituzione, di cui è ancora parte la Siria governata da Assad.
 
[5] 600 000 uomini (più 378 000 riservisti che possono essere mobilitati) sotto le bandiere della Turchia, contro 250 000 (senza alcuna riserva disponibile) per la Siria. La Turchia surclassa la Siria anche quanto ad armamenti terrestri e aerei, con un rapporto approssimativo da 3 a 1.
 
 

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