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ProfileCrisi siriana, ottobre 2015 - L’ossessione dei neocon per un cambio di regime in Siria spinge una parte delle alte sfere di Washington a rifiutare l’aiuto offerto dalla Russia per stabilizzare il paese dilaniato dalla guerra e per arginate la marea di rifugiati (nella foto, Obama e Putin)
 
 
 
Consortiumnews, 22 settembre 2015 (trad. ossin)
 
 
Gli Stati Uniti si aggrapperanno al salvagente lanciato da Putin?
Robert Parry
 
L’ossessione dei neocon per un cambio di regime in Siria spinge una parte delle alte sfere di Washington a rifiutare l’aiuto offerto dalla Russia per stabilizzare il paese dilaniato dalla guerra e per arginate la marea di rifugiati
 
 
Il presidente russo Vladimir Putin ha lanciato ai decisori statunitensi l’equivalente di un salvagente per tirarli fuori dalla palude della guerra in Siria, ma i neocon di Washington e i media dominanti brontolano per l’audacia di Putin e ne contestano le motivazioni.
 
Per esempio, l’editoriale del New York Times di lunedì scorso (21 settembre 2015) ha accusato Putin di rafforzare pericolosamente la presenza militare russa in Siria, anche se il suo obiettivo dichiarato è di schiacciare i jihadisti sunniti dello Stato Islamico e di altri movimento estremisti.
 
Il Times si raschia la gola, parlando di Putin che intende usare il suo prossimo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per “perorare la nascita di una coalizione internazionale contro lo Stato Islamico, ignorando ostentatamente quella guidata dagli Stati Uniti”.
 
The Times riprende poi il bizzarro argomento neocon, secondo cui il modo migliore di contrastare la minaccia che proviene dallo Stato Islamico, da Al Qaeda e dalle altre forze jihadiste sarebbe quello semplicemente di eliminare il presidente siriano Bachar el-Assad e il suo esercito, che sono stati gli ostacoli principali ad una vittoria totale dei terroristi sunniti.
 
La ricetta da sogno del Times/neocon continua a essere che il cambiamento di regime a Damasco consentirebbe finalmente di far prevalere i mitici ribelli moderati che alla fine, in qualche modo vincerebbero contro estremisti molto più numerosi e meglio armati. Questa prospettiva non tiene conto del fatto che, dopo avere messo in campo un progetto di addestramento di questi moderati costato 500 milioni di dollari, l’esercito USA confessa oggi di disporre di 4 o 5 combattenti all’interno della Siria. In altri termini gli elementi di questa brigata addestrata dagli Stati Uniti si contano sulle dita della mano (il resto essendo passato armi e bagagli con lo Stato Islamico, ndt)
Ma invece di riflettere sulle strampalate idee che a Washington qualcuno ha sulla Siria – o di offrire ai lettori una cronaca più dettagliata del conflitto siriano – il Times si mette ad accusare Putin di creare il caos. 
 
 
“Nessuno deve ingannarsi sulle responsabilità della Russia nell’agonia della Siria - scrive il Times - Putin avrebbe potuto dare una mano a prevenire la guerra che ha provocato la morte di più di 250.000 Siriani e ne ha costretto milioni a scappare, se avesse operato, insieme alle altre grandi potenze nel 2011, per impedire che Assad facesse guerra al suo popolo contro le manifestazioni pacifiche anti governative (…) Assad se ne sarebbe probabilmente andato se la Russia e l’Iran non gli avessero fornito armi e altri aiuti”. 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                     
                                                                                                                                                                 
Questo pensiero unico ignora i precoci episodi di uccisioni di poliziotti e soldati da parte di estremisti sunniti, episodi che hanno poi dato luogo a severe rappresaglie. Ma la leggenda siriana, secondo il Times, è sic et simpliciter che i manifestanti pacifici sono stati attaccati dal governo cattivo.
 
L’ingenuo scenario delineato dal Times corrisponde esattamente a quanto gli influenti neocon vogliono che l’Occidente creda, perché avevano messo la Siria nella lista dei paesi dei quali bisognava cambiare il governo, al fianco dell’Iraq e dell’Iran, fin da quando venne approntata questa lista promossa dal leader politico israeliano Benjamin Netanyahu nel 1996. La sceneggiatura scritta dal Times trascura inoltre il ruolo essenziale svolto dalla Turchia, dall’Arabia Saudita, dal Qatar e da altri alleati degli Stati Uniti nel sostegno assicurato ad Al Qaeda e al suo rampollo Stato Islamico.
 
 
I soldi non contabilizzati di Bush
 

A complicare ancora di più la narrazione siriana “accusiamo Putin”, fatta dai responsabili di Washington, si aggiunge l’involontario contributo offerto dal presidente George W. Bush e dall’esercito USA alla nascita di questi brutali movimenti estremisti sunniti, grazie all’invasione dell’Iraq di dieci anni fa. Dopo tutto, è stato solo per reazione alla presenza dell’esercito degli Stati Uniti, che Al Qaeda si è radicata dapprima in Iraq e poi nel territorio siriano.
 
Non solo il rovesciamento e l’esecuzione del leader sunnita Saddam Hussein ha provocato il risentimento dei sunniti locali, ma il disperato tentativo operato da Bush di evitare una totale disfatta in Iraq durante il suo secondo mandato lo ha spinto ad autorizzare il pagamento di miliardi di dollari ad alcuni combattenti sunniti, in cambio dell’impegno a non sparare sui soldati USA e dare a Bush il tempo di negoziare un ritiro delle sue truppe.
 
A partire dal 2006, questi versamenti da parte degli Stati Uniti ai combattenti sunniti in cambio di una tregua della resistenza armata, sono stati la base su cui si è realizzata ciò che all’epoca venne chiamato il “risveglio sunnita”. Per quanto il programma sia stato poi seguito dall’invio massiccio di truppe da parte di Bush nel 2007, la tregua acquistata e pagata è stata decisiva a realizzare ciò che i leader di Washington hanno chiamato il “successo” dell’invio di rinforzi o “vittoria finale”.
 
Oltre ai miliardi di dollari versati a pacchi di banconote statunitensi agli insorti sunniti, il dispiegamento di altri soldati da parte di Bush è costato la vita ad altri 1.000 soldati statunitensi e provocato l’uccisione di un numero incalcolabile di Iracheni, molti dei quali si limitavano a vivere solo la loro vita quotidiana, fino al momento in cui sono stati dilaniati dalle potenti munizioni USA.
 
Ma quello che la comunità della intelligence statunitense attualmente prende in considerazione è unicamente il danno collaterale provocato dalle mazzette elargite dall’amministrazione Bush agli insorti sunniti. Una parte di queste somme sembra sia servita da capitale di avviamento per la trasformazione di “Al Qaeda in Iraq” in Stato Islamico quando i sunniti, i cui diritti hanno continuato ad essere disconosciuti dal governo iracheno dominato dagli siiti, hanno esteso la loro guerra settaria alla Siria.
 
Oltre agli sciiti iracheni, anche il governo laico della Siria, con Assad e altri dirigenti importanti del ramo alauita dell’islam sciita, è stato preso di mira da estremisti sunniti locali e da jihadisti stranieri, alcuni dei quali si sono uniti a ISIS, ma la maggior parte dei quali si è raggruppato sotto le bandiere di Al-Nusra e di altre forze radicali. Nonostante lo Stato Islamico derivi da “Al Qaeda in Iraq” (AQI), esso è diventato una forza ancora più sanguinaria e, in Siria, si è separato da Al Qaeda centrale.
 
 
Rapporto di intelligence
 
I servizi di informazione USA hanno seguito in tempo reale buona parte di questa evoluzione. Secondo un rapporto dell’Agenzia di informazioni della Difesa (DIA) dell’agosto 2012, “AQI ha sostenuto l’opposizione siriana fin dagli esordi, sia sul piano ideologico che mediatico (…) AQI ha dichiarato la propria opposizione al governo Assad, considerandolo un regime settario nemico dei sunniti”.
 
In altri termini, quando Assad fin dall’inizio ha denunciato l’infiltrazione di elementi terroristi nei ranghi dell’opposizione, parlava sulla base di fatti reali. Fin dai primi momenti, nel 2011, vi sono stati casi di uomini armati che uccidevano dei poliziotti e dei soldati. Poi vi sono stati attacchi terroristi che hanno preso di mira alti responsabili del governo siriano, ivi compresa una esplosione, del 18 luglio 2012 - ritenuta dai membri del governo un attentato suicida – che ha ucciso il ministro siriano della Difesa, il generale Dawoud Rajiha, e Assef Shawkat, vice ministro della difesa e cognato di Assad.
 
Già in questo momento, era diventato chiaro che l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia e altri paesi guidati da sunniti trasferivano denaro e altri aiuti ai ribelli jihadisti cercando di rovesciare il governo di Assad, che era considerato come un protettore dei cristiani, degli sciiti, degli alauiti e delle altre minoranze timorose di persecuzioni in caso di vittoria dei sunniti.
Come ha evidenziato il rapporto del 2012 della DIA, “all’interno, gli avvenimenti prendono una direzione chiaramente settaria (…) I salafiti, i Fratelli Mussulmani e AQI sono le forze principali che guidano l’insurrezione in Siria (…) L’Occidente, i paesi del Golfo e la Turchia sostengono l’opposizione, mentre la Russia, la Cina e l’Iran appoggiano il governo”.
 
Gli analisti della DIA avevano già compreso i rischi che AQI rappresentava sia in Siria che in Iraq. Il rapporto contiene una severa messa in guardia sull’espansione di AQI, che si stava trasformando in Stato Islamico o in quello che la DIA chiamava ISI. Il brutale movimento armato andava ingrandendosi con l’arrivo di jihadisti da tutto il mondo che venivano ad arruolarsi sotto la bandiera nera dei militanti sunniti, intolleranti verso l'Occidente, come verso gli eretici sciiti e le altre branche non sunnite dell’islam. 
 
Il suo rafforzamento lo spingeva a espandersi in Iraq. La DIA ha scritto: “Tutto questo crea l’atmosfera ideale perché AQI ritorni alle sue antiche basi di Mosul e Ramadi (in Iraq) e si adoperi con slancio rinnovato per l’unificazione dei sunniti di Iraq e Siria nel jihad, e del resto dei sunniti nel mondo arabo contro quelli che considerano i loro unici nemici, i dissidenti (evidente riferimento allo sciismo e alle altre forme non sunnite dell’islam) ISI potrebbe anche dichiarare uno Stato Islamico unendosi ad altre organizzazioni terroriste in Iraq e in Siria, cosa che renderà difficile l’unificazione dell’Iraq e la protezione del suo territorio”.
 
Di fronte a questa crescente minaccia sunnita – che infatti si è estesa all’Iraq – l’idea che la CIA o l’esercito degli Stati Uniti potessero effettivamente armare e addestrare una forza ribelle moderata per fare qualche concorrenza agli islamisti appariva già allora delirante; e tutta via essa rappresentò il “pensiero unico” tra la gente importante a Washington: organizzare un esercito moderato per cacciare Assad e tutto sarebbe andato bene.
 
Il 2 ottobre 2014 il vice presidente Joe Biden ha fatto più che svelare un segreto quando ha dichiarato, nel corso di una conferenza alla Harvard’s Kennedy School: “I nostri alleati nella regione sono quelli che ci hanno causato più problemi in Siria (…) i Sauditi, gli Emirati ecc che cosa facevano? Essi erano decisi a rovesciare Assad e, fondamentalmente, a fare una guerra per procura tra sunniti e sciiti, quindi che cosa hanno fatto? Hanno trasferito centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi a chiunque combattesse contro Assad, salvo che la gente che riceveva questi approvvigionamenti erano Al-Nusra e Al Qaeda e altri elementi estremisti che venivano da varie parti del mondo”.
 
In altri termini, molti dei paesi facenti parte della coalizione anti Stato Islamico guidata dagli Stati Uniti sono stati effettivamente coinvolti nel finanziamento e nell’armamento di molti di quegli stessi jihadisti che la coalizione dovrebbe oggi combattere. Se si fa un calcolo dei miliardi di dollari perduti che l’amministrazione Bush ha trasferito ai combattenti sunniti a partire dal 2006, si può tranquillamente affermare che la coalizione guidata dagli Stati Uniti è la principale responsabile nella creazione del problema con il quale oggi si confronta.
 
Biden ha sollevato una questione simile, almeno con riguardo agli Stati del Golfo Persico: “Ora improvvisamente, non voglio essere troppo faceto ma tutti costoro si sono convertiti (…) L’Arabia Saudita ha smesso di finanziare. L’ Arabia Saudita autorizza l’addestramento (di combattenti contro lo Stato Islamico) sul suo territorio (…) i Qatariani hanno tagliato i loro sostegni agli elementi più estremisti delle organizzazioni terroriste, e i Turchi (…) tentano di chiudere le frontiere”.
 
Ma molti dubbi residuano circa l’impegno di questi governi sunniti nella causa della lotta contro lo Stato Islamico e ancor più se questo impegno si estenda anche al Fronte al-Nusra di Al Qaeda e ad altre forze jihadiste. Alcuni neocon hanno perfino teorizzato l’appoggio ad Al Qaeda come il male minore rispetto al regime di Assad e allo Stato islamico.
 
 
Accusare Putin
 
Nonostante tutto questo, l’editoriale del Times di lunedì ha accusato Putin di essere responsabile di molto del caos siriano perché la Russia ha osato sostenere il governo siriano, internazionalmente riconosciuto, di fronte la terrorismo sostenuto dall’estero. Il Times non incolpa gli Stati Uniti o i loro alleati per l’orrore in Siria.
 
Il Times ha anche lanciato degli insulti personali contro Putin nell’ambito del suo unilaterale resoconto della crisi ucraina, che il redattori dell’editoriale hanno definito sic et simpliciter un caso di aggressione russa o di invasione russa – ignorando il ruolo nascosto svolto dalla Segretaria di Stato aggiunta neocon Victoria Nuland nell’orchestrazione del rovesciamento violento del presidente ucraino eletto Victor Janukovyc nel febbraio 2014.
 
Nell’editoriale di lunedì, il Times ha riportato che il presidente Barack Obama “considera Putin come un criminale”, per quanto sia stato proprio il presidente Obama che si è vantato, solo il mese scorso, di avere “ordinato azioni militari in sette paesi”, un altro fatto fastidioso che il Times ha discretamente tralasciato. In altri termini, chi è il “criminale”?
 
Però, nonostante le altre grida e le ingiurie contro Putin, il Times conclude dicendo che Obama dovrebbe afferrarsi al salvagente che il leader russo ha lanciato alla politica siriana di Obama che – con tutte le sue porcate e i suoi mulinelli in aria – sta per affondare rapidamente nelle sabbie mobili. L’editoriale conclude:
 
“Il segretario di Stato John Kerry, parlando a Londra venerdì, ha chiaramente detto che gli USA cercheranno un terreno comune in Siria, ciò che potrebbe voler dire mantenere temporaneamente Assad al potere, durante una fase di transizione. I Russi dovrebbero accettare le dimissioni, in un certo termine, di Assad, diciamo sei mesi. L’obiettivo è un governo di transizione che metta insieme elementi del governo siriano e dell’opposizione. L’Iran dovrà essere parte di qualsiasi accordo”.
 
“Gli Stati Uniti devono essere consapevoli che le motivazioni di Putin sono decisamente duplici e che potrebbe non preoccuparsi troppo di unirsi alla lotta contro lo Stato Islamico e di andare in soccorso al suo antico alleato. Ma tenendo questo bene a mente non c’è motivo di non andare a vedere”.
 
L’apparente volontà di Kerry di lavorare coi Russi – posizione che ho sentito essere condivisa da Obama – dimostra che esiste almeno un po’ di buon senso nel dipartimento di Stato, che pure aveva iniziato col mettere in campo un tentativo assurdo e futile di organizzare un blocco aereo per impedire alla Russia di portare soccorso e assistenza alla Siria.
 
In caso di successo, questo progetto, prodotto dalla divisione europea di Nuland, avrebbe potuto provocare il crollo del governo siriano e avrebbe aperto le porte di Damasco allo Stato Islamico e/o a Al Qaeda. I neocon sono talmente ossessionati dall’obiettivo che si sono dati da molto tempo – un cambio di regime in Siria – da accettare il rischio di lasciare la Siria nelle mani dei tagliatori di teste dello Stato Islamico e ai cospiratori terroristi di Al Qaeda.
 
Tuttavia, dopo i ringhi e le agitazioni del caso, sembra che le teste più lucide dell’amministrazione Obama abbiano alla fine prevalso – e forse anche al New York Times.